“Ciao, sono Hannah, Hannah Baker… Esatto. Non smanettate su qualunque cosa stiate usando per ascoltare, sono io, in diretta e stereo. Nessuna replica, nessun bis e assolutamente nessuna richiesta. Mangia qualcosa e mettiti comodo, perché sto per raccontarti la storia della mia vita, anzi, più esattamente il motivo per cui è finita e se tu hai queste cassette… è perché sei uno dei motivi.”
Sono queste le parole con cui la protagonista della nuova serie tv prodotta da Netflix “13 reasons why”, si presenta. Il numero tredici è il fondamento della serie, tuttavia non è una cifra come un’altra, il tredici è presente in ogni istante: tredici sono gli episodi, tredici sono i messaggi registrati su cassetta dalla ragazza prima di morire, tredici sono le ragioni per cui si è tolta la vita.
E tredici sono le parole che si possono usare per descrivere la storia che è stata portata sullo schermo e che ha lasciato un segno, più o meno profondo a seconda della personalità e dell’esperienza personale, negli spettatori.
Ed è proprio da qui che partiremo, dalla parola CIASCUNO. È di ciascuno di noi che stiamo parlando. Perché è uno dei termini più giusti per descrivere la storia di Hannah Baker? La risposta è semplice, perché la sua è una realtà che riguarda ciascuno di noi. La sua storia ha a che fare con le diverse reazioni, le diverse personalità e il diverso comportamento che ognuno ha nelle più svariate situazioni. Forse, limitandosi a guardare le prime puntate della serie, ci si ritrova a chiedersi se la protagonista non stia affrontando la sua vita nel modo sbagliato, se non stia prendendo scelte che al suo posto non si sarebbero prese, se non stia reagendo in modo errato, addirittura esagerato. Tuttavia, ognuno dei tredici personaggi principali della serie, Hannah compresa, rappresenta un tipo di persona diversa. E almeno uno dei comportamenti che tengono, almeno una delle reazioni che hanno, sono simili a quelli che assumeremmo noi. Quindi la storia di Hannah Baker non riguarda soltanto i personaggi della serie, bensì ciascuno di noi. Inoltre, il mondo e la società in cui i personaggi della storia agiscono è lo stesso con cui abbiamo a che fare noi, tutti i giorni.
Così, si può passare alla seconda parola: QUOTIDIANITÀ. La scuola è la quotidianità di Hannah Baker, come lo è, o lo è stata, per tutti noi. I familiari corridoi, le campanelle, le classi e le lezioni sono i luoghi in cui la sua vicenda si sviluppa e in cui si sviluppano anche le nostre. I suoi ambienti sono i nostri ambienti, la sua quotidianità è la nostra quotidianità, la gente con cui ha a che fare è la gente con cui noi abbiamo a che fare. Quella – questa – normalità può essere crudele, le persone possono essere crudeli.
La terza parola, infatti, è MASSA. Quando si parla di massa, si fa riferimento all’insieme degli individui, e non c’e nulla di più pericoloso. Essa influenza, convince, giudica e distrugge. È questo che ha ucciso Hannah ma che ha anche messo in difficoltà centinaia di altri ragazzi come lei. Basta una voce messa in giro da qualcuno, che, veloce come il vento, si diffonde tra tutti. Ben presto tutta la massa ne è a conoscenza. Ed essa non è imparziale, condanna senza prove e annienta senza ragioni. Ma sopratutto è inarrestabile e non seguirla è estremamente difficile e faticoso, non farne parte è rischioso. Se si ha la massa contro, come l’ha avuta Hannah per colpa di qualche diceria, rimangono poche le persone di cui fidarsi.
La storia di “13 reasons why” parla anche delle ETICHETTE che la collettività dà e dei PREGIUDIZI. Ad Hannah Baker è stata imposta la fama di essere una “facile” e com’è successo a lei accade ad altre mille ragazze che, la maggior parte delle volte, sono tutto tranne che facili. Le etichette sono assegnate a causa dei pregiudizi, quindi non si può fare altro che ringraziarli calorosamente per rendere tutto così complicato ed infelice! Se non fosse per loro, il finale della storia di Hannah sarebbe stato diverso. Purtroppo, i pregiudizi ci riguardano da vicino e qualcuno potrebbe anche affermare che sia più che normale averne. Obiettivamente parlando, è vero: nessuno è del tutto privo dei pregiudizi. Ogni giorno ci si ritrova ad affrontarne qualcuno, legati alle diverse nazionalità, al colore della pelle o al modo di vestire, per esempio. Quando però questi pregiudizi iniziano ad influenzare in modo negativo il comportamento e la personalità, essi cominciano ad essere dannosi, e, ben presto, a creare vittime.
I pregiudizi sono innegabilmente – e inevitabilmente – legati da stretti nodi all’EGOISMO di ognuno. Essere egoisti significa amare soltanto se stessi, avere come unico scopo nella vita quello di non raggiungere nient’altro che i propri interessi. La razza umana è estremamente egoista, da sempre. È questo uno dei difetti fatali che hanno reso i giorni di Hannah Baker invivibili. L’esempio più eclatante di egoismo nella serie TV è raccontato nella cassetta numero 3. A causa di una foto compromettente, la reputazione di una ragazza che Hannah considerava amica viene messa a rischio. Per evitare di essere giudicata, l’amica scarica la colpa della foto sulla protagonista, rovinandole a sua volta la reputazione. È stato l’egoismo di questa persona a spinger Hannah a togliersi la vita? Probabilmente no, l’egoismo non uccide, ma il tradimento può farlo. E tradire qualcuno per salvare se stessi non è forse la più grande forma di egoismo?
Questo tuttavia non è l’unico modo per spezzare qualcuno in un modo difficilmente riparabile. Particolarmente complicata da affrontare è l’indifferenza delle persone che una volta rappresentavano per noi un punto d’appoggio, una spalla su cui piangere. È peggio dell’odio, è una totale mancanza di interesse. Restare a guardare mentre qualcun altro subisce è la più sottile forma di crudeltà che ci sia, rendersi conto che alle persone non importa ciò che ti succede fa male, un po’ come sentirsi dire “Non sei niente per me”. O come ricevere un pugno nello stomaco.
Hannah si è ritrovata con il cuore in pezzi, ha avuto a che fare con il male peggiore di tutti: l’INDIFFERENZA. In certe situazioni, bisogna ammetterlo, ci si comporta da indifferenti e si continua a camminare tenendo lo sguardo basso, facendo finta che ciò che sta accadendo non sia reale, ci si ripete “Non sono affari miei”. Capita mai?
Hannah Baker ha detto: “E voi altri, tutti quanti voi, vi siete accorti delle ferite che mi avete provocato? No. Immagino di no.” Certo che no. Tutti erano indifferenti. Tutti siamo indifferenti.
E così, continuando ad essere indifferenti abbandoniamo le persone a cui teniamo e di cui abbiamo bisogno. L’ottava parola è ABBANDONO, perché è ciò che è accaduto alla protagonista della serie. Ma, come tutte le altre espressioni su questa “lista”, è qualcosa che ci riguarda da vicino. Siete mai stati abbandonati da qualcuno? Dire che fa male sarebbe impreciso. Essere abbandonati non fa star male, distrugge. È una sensazione soffocante, come se non si potesse prendere fiato, in cui si tenta disperatamente e senza successo di alleviare il dolore. La verità è dura: non è rimasto nessuno.. Non c’è più nessuno disposto ad aiutare, ad ascoltare ciò che si ha da dire, nemmeno coloro che, un tempo, erano stati i più intimi confidenti. La massa, le etichette, i pregiudizi e l’indifferenza li hanno contagiati tutti. L’abbandono spinge a chiedersi se qualcosa di sbagliato non sia in noi, invece che negli altri. Ci si sente soli, immensamente soli.
Questo ci porta a parlare della prossima parola: SOLITUDINE. “Ci sono tanti tipi diversi di solitudine. Non parlo di quando ci si sente soli in mezzo alla folla, quello succede sempre, a tutti. E non è la solitudine di chi cerca l’amore, o di chi viene preso in giro dai ragazzi popolari. La solitudine di cui parlo è di quando pensi di non avere più niente. Niente. E nessuno. Stai affogando, e nessuno ti tira una fune.” Queste le parole di Hannah, questa l’ennesima ragione per cui ha deciso di smettere di vivere. La solitudine è una sensazione che tutti, in un modo o nell’altro, pensano di provare. Ma cosa vuol dire essere soli, soli davvero? Forse pensiamo di saperlo, forse ci ripetiamo che già l’abbiamo sperimentato, ma la solitudine, quella vera, non è così semplice da trovare. E anche se la si prova, se si crede che non ci sia più nessuno a cui importi qualcosa, prima di fare qualsiasi passo bisognerebbe chiedersi se è proprio vero ciò che si pensa. Se si chiudono gli occhi e si prova a pensare ad una persona con cui varrebbe la pena parlare, non viene davvero in mente nessuno?
Forse Hannah Baker non se l’è chiesto, di sicuro non se n’è resa conto, altrimenti non avrebbe fatto ciò che ha fatto: non era sola. C’erano ancora persone che tenevano a lei.
Suo padre e sua madre, Andrew e Olivia Baker, e Clay Jensen, il suo migliore amico. Forse per loro sarebbe valsa la pena vivere.
Le prossime due parole rappresentano i fondamenti della serie televisiva ed entrambe sono molto attuali. La prima è BULLISMO. C’è forse bisogno di spiegazioni? Conosciamo il bullismo molto bene. Nelle scuole c’è da sempre, può essere fisico o psicologico, ma di qualunque tipo sia sempre di una violenza si tratta. Le persone che lo subiscono sono vittime, condannate ad una via pina di problemi e difficoltà. Magari si chiedono cos’abbiano fatto di male per meritarsi questo “trattamento speciale”, ma non lo fanno mai ad alta voce, forse per vergogna, forse per paura. Probabilmente – anzi sicuramente – sono persone normali che di male non hanno fatto nulla. Tuttavia, a rimetterci la vita sono loro. Purtroppo, Hannah non è l’unica persona ad essersi tolta la vita a causa di questo comportamento. SUICIDIO è l’undicesima parola usata per descrivere la storia di “13 reasons why”. Non c’è bisogno di dire il motivo per cui questa parola fa parte della “lista”. Essa è ciò a cui tutte le parole precedenti hanno portato, nella vita della protagonista come nella vita di altri ragazzi che hanno scelto la sua stessa via. Hannah Baker, suicidatasi perché vittima di bullismo, è solo un personaggio immaginario, ma di ragazze reali come lei quante ce ne sono? La lista è tristemente lunga. Carolina Picchio, la quattordicenne morta buttandosi dalla finestra dopo essere stata violentata; Emilie, diciassettenne, vittima di bullismo a scuola; Julia Derbyshire, che si è impiccata a causa degli insulti e degli abusi. Carolina, Emilie, Julia, la storia sembra essere semre la stessa. E tutte le volte ha la stessa fine.
Gli altri non se ne accorgono, non si accorgono che c’è qualcosa che non va fino a quando non è troppo tardi per rimediare. Ed ecco che tutti si chiedono il motivo di quella morte prematura, nessuno se lo sarebbe mai aspettato, nessuno aveva notato i falsi sorrisi, l’infelicità nascosta, il dolore soffocato.
I colpevoli, però, sanno di essere responsabili di quelle morti. Il senso di COLPA si fa sentire. Questa è la prossima parola, ed è, tra tutte, una delle espressioni con le peggiori conseguenze. È una di quelle sensazioni che divorano dall’interno, che portano alla follia e che, alla fine, spingono a compiere gli atti più imperdonabili. Una morte, senso di colpa, un’altra morte. Gran parte della serie televisiva parla di questo: i personaggi sono distrutti dalla consapevolezza di essere uno dei motivi per cui Hannah si è suicidata, il senso di colpa li cambia, li manda fuori di testa, li rende instabili. Esso è un inevitabile aspetto della personalità umana, come lo è il RIMPIANTO, ultima parola per descrivere la storia di “13 reasons why”. Il rimpianto è un’emozione che deriva dal senso di colpa e si manifesta per azioni che si volevano fare e che non si sono fatte. Verrebbe da dire che il rimpianto non serve a niente, che pensare e ripensare a ciò che sarebbe potuto essere è inutile. Dal passato, però, bisognerebbe sempre imparare. Meditare su quello che non abbiamo fatto o non abbiamo detto, su ciò che abbiamo deciso o sulle decisioni che invece abbiamo evitato di prendere potrebbe essere utile per il futuro. Non solo nostro, ma di tutti. Se grazie al rimpianto riuscissimo a renderci conto che, evitando di affibbiare etichette, di seguire la massa, di ignorare e abbandonare potessimo fare in modo che non ci siano più ragazzi e ragazze come Hannah Baker, allora dovremmo tutti lasciarci condizionare dal rimpianto. Perché se qualcuno si fosse comportato in modo diverso, forse Carolina, Emilie e Julia sarebbero ancora tra noi.
Isabella Scotti