Ogni italiano che si rispetti sa cosa vuol dire mangiare un buon piatto di spaghetti. O ancora meglio, le penne al ragù della nonna. Un espresso Lavazza al bar all’angolo. La sacralità della famiglia. La teatralità nel parlare. Insomma, sono tutti tratti tipici della grandiosa – con un pizzico di patriottismo – cultura che ci scorre nelle vene. Siamo italiani, dalle montagne del Trentino alle spiagge del Salento. Ma nessuno si chiede mai da dove arrivi tutto questo? Prendiamo la lingua, ad esempio. L’italiano è dolce, soffice, scivola veloce nelle nostre bocche. Sentirlo parlare è come andare a sentire l’opera, dialetto stretto o italiano proprio. E spesso non ci rendiamo neanche conto di quanto meccaniche siano altre lingue in confronto, l’inglese prima di tutte. Dovremmo inchinarci tutti, ringraziando chi ci ha concesso una parlata così decorosa. Che ancora adesso siamo famosi per essere prolissi, esaustivi. Dante, Petrarca e Boccaccio. Certo, non sono responsabili dei magnifici sughi con cui condiamo la pasta, ma diciamo che un’importanza ce l’hanno comunque.
Si dice che la lingua faccia un popolo. Al di là di tutte le modernizzazioni politiche, religiose e territoriali. Quindi forse più che definire Dante il padre dell’italiano, potremmo fare una pazzia e pensare a lui come il padre degli italiani. Sì, perché lui è quello che ha detto stop. Ha detto stop, e ha tagliato il cordino invisibile che vi era fra i ceti sociali. Ha reso la letteratura accessibile ai popolani. Ha creato il popolo degli italiani da due classi distinte. Come non ammirarlo? Lui sì che ha avuto coraggio. Si è messo in testa una cosa e non c’è stato santo che tenesse. Ha scritto un poema, magnifico sotto tutti i punti di vista, usando le parole di strada. La Divina Commedia è un po’ come una Gomorra del quattordicesimo secolo. E non è che si sia messo solo a raccontare di Priori, Papi e quant’altro. No no. Si è messo a raccontare dell’uomo. Come ci ricorda Claudio Giunta nel suo Perché uno dovrebbe leggere Dante?, è “un racconto che parla ancora di noi in molti modi inaspettati: lo smarrimento, il senso di colpa, il viaggio coi suoi scenari prodigiosi, il pentimento, la redenzione, la felicità raggiunta”. Siamo noi. Dante parla dell’uomo. Che in quanto tale, non è cambiato dal 1300: mentre ci lasciamo trascinare da un girone all’altro, dovremmo accorgerci che è tutto dannatamente moderno. Anzi, contemporaneo. Dante è riuscito a cogliere il senso più autentico dell’uomo; e insomma, se questo senso più autentico non fosse lo stesso anche per noi, uomini d’oggi, Dante non avrebbe fatto il suo lavoro. Continuiamo a farci separare da ragioni economiche, politiche, religiose; ma se si va oltre il materialismo dell’ultimo secolo, ci accorgiamo che i temi della Divina Commedia, un po’ nascosti un po’ no, rispecchiano ancora adesso la nostra società. Questa è la straordinarietà di Dante. È riuscito a creare un’opera immortale. È uno su un milione. Ma è anche un vecchio zio che ci racconta di quella volta che ha viaggiato dall’altra parte del mondo. È storia. È tradizione. È cultura.
La Divina Commedia è forse una delle poche opere che studiamo fra i banchi di scuola che avranno dei veri riscontri nella nostra vita, al di là delle tabelline. Che ci insegneranno come affrontare la vita. La vita vera. Perché questo è quello che fa l’uomo: vive. E come possiamo comprendere la natura dell’uomo, la sua missione, senza sviscerare tutti quegli autori che hanno cercato di spiegare e rappresentare proprio questo? Per farlo, bisognerebbe estrapolare la grandezza dell’opera dal contesto quotidiano in cui a ciò che è vecchio viene associato l’aggettivo noioso. Perché, preso per il verso giusto e con la dovuta attenzione, ci renderemmo conto di quanto Dante – e come lui molti altri – sia in grado di ispirarci, illuminarci e soprattutto guidarci.
Ginevra Galliano