Quando il muro fu eretto, il suo significato era chiaro: era il punto più alto raggiunto da un’epoca di divisione, era il simbolo concreto della cortina di ferro, la dimostrazione che quella stessa divisone era più importante di qualsiasi altra cosa. Di strade, ad esempio, e di fiumi, di boschi, di case, cimiteri, famiglie, amicizie, affetti e vite umane. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta del Nazismo, i vincitori si spartirono una Germania ed una Berlino distrutte: est all’Unione Sovietica e Ovest a Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Sembrava una situazione d’equilibrio, e proprio per garantire l’equilibrio la divisione era stata decisa. Infatti, i due blocchi contrapposti erano in realtà nati per garantire alla Germania stabilità ed un governo unico. I conflitti però nacquero in fretta. Due governi in una stessa città sono inevitabilmente destinati a scontrarsi. Da una parte c’era la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), dall’altra la Repubblica Federale Tedesca (BRD). Le vita era radicalmente diversa, nell’una e nell’altra parte. Se ad Ovest il capitalismo si diffondeva, ed insieme ad esso una vitalità ed una prosperità mai viste prima, ad Est regnava il socialismo. Lavoro e appartamenti per tutti, salario uguale per tutti , ogni bambino con le stesse possibilità di andare all’asilo, le madri ricevevano i soldi per la maternità dopo aver partorito. La gente però non era felice. Perché? Mancavano la libertà, l’individualità: lo stato dirigeva tutto, controllava ogni cosa. Così le persone, avendo sotto gli occhi la vita dell’Ovest, cominciarono a rendersi conto della verità: eliminata una dittatura, ne era stata imposta subito un’altra, e coloro che affermavano di essere i liberatori erano in realtà dei nuovi conquistatori.
Il muro fu costruito per impedire la libera circolazione delle persone verso la Germania Ovest. Nelle ore tra il 12 e il 13 agosto 1961 fu innalzata dai soldati una barriera di filo spinato. La mattina dopo i cittadini si ritrovarono davanti ad un confine invalicabile che fino al giorno prima superavano tutti i giorni, per andare a lavorare, o per andare a scuola, o magari per tornare a casa. Dopo pochi giorni il filo divenne un muro di cemento vero e proprio, che fu chiamato “protezione antifascista” ma che divenne il simbolo vero e proprio della tirannia sovietica. 156 km di lunghezza per 3,6 metri di altezza che portarono solo sconforto e disperazione. Berlino non era più Berlino e i berlinesi non più berlinesi.
Il 15 dello stesso mese pietre e cemento cominciarono a sostituire il filo spinato. Il muro venne regolarmente migliorato, e nel 1962 divenne doppio, in modo che le fughe fossero più difficili. Lo spazio tra essi fu chiamato “striscia della morte”. E lo era davvero. L’ordine che i soldati ricevettero fu: «Se dovete sparare, fate in modo che la persona in questione non vada via ma rimanga con noi» (Erich Mielke, Ministro per a Sicurezza della DDR). Le vittime del muro furono più di 200. Non ci fu pietà per nessuno. Non per i giovani, non per gli anziani. Non per le donne, non per i bambini. Non per il diciottenne Peter Fechter, ad esempio, ferito dai proiettili e abbandonato a dissanguarsi nella terra mortale tra i due muri, o per la diciottenne Marienetta Jirkowsky uccisa con 27 colpi d’arma da fuoco.
La prigionia durò 28 lunghi anni, durante i quali, sopratutto dopo l’elezione nel 1985 di Michail Gorbačëv, il sistema socialista cominciò a collassare. La nuova politica di stampo più liberale dell’Unione riaccese il fuoco, in parte soffocato dalla violenza del muro, che aveva per molto tempo alimentato lo spirito di ribellione dell’est. Nel 1989 l’Ungheria rimosse le sue restrizioni al confine con l’Austria. Intanto Honecker, leader della DDR, si dimise e venne sostituito da Krenz. Il nuovo governo decise di concedere ai cittadini dell’Est permessi per viaggiare nella Germania dell’Ovest. Günter Schabowski, ministro della Propaganda della DDR, ebbe il compito di dare la notizia. Egli però, non informato delle “regole di viaggio” ed incalzato dalle domande dei giornalisti nella conferenza stampa del 9 novembre 1989, azzardò la risposta che segnò la fine di un’epoca: «Per accontentare i nostri alleati, è stata presa la decisione di aprire i posti di blocco. (…) Se sono stato informato correttamente quest’ordine diventa efficace immediatamente.»
Decine di migliaia di berlinesi si precipitarono al muro, chiedendo di attraversalo. Le guardie di confine non furono in grado di trattenere la folla, posti di blocco furono aperti e la gente si riversò nell’Ovest. Ci furono abbracci tra amici e sconosciuti, lacrime, urla, festeggiamenti. Il muro era caduto. Poco tempo dopo anche il cemento venne distrutto e del simbolo della cortina di ferro non rimasero che rovine sparse per la città.
Quando il muro cadde, il significato dell’azione era chiaro: rappresentava la volontà di abbattere tutte le barriere, era una promessa di pace, in parte mantenuta con la creazione dell’Unione Europea. Eppure il 1989 non è stato la fine delle divisioni, perché da allora le barriere si sono moltiplicate. E non sono più ideologiche, ma psicologiche, rappresentano la paura dell’estraneo, del diverso. Derivano da razzismo e xenofobia, per questo risultano ancora più difficili da abbattere. Secondo un rapporto del Transnational Institute, negli ultimi cinque anni c’è stato un picco di “innalzamento”. L’Unione Europea ha costruito ‘l’equivalente di sei muri di Berlino’ sulla terra e sul mare. Ad esempio, tra Spagna e Marocco, tra Turchia e Grecia e Bulgaria, tra Ungheria e Serbia e Croazia; anche in Francia, a Calais, c’è uno sbarramento per evitare che i migranti salgano clandestinamente sui camion diretti nel Regno Unito. L’Europa, tuttavia, è solo una piccola parte del mondo e, se vicino a noi ci sono tanti muri, moltissimi altri sono in America, Asia e Africa. Oggi ci sono addirittura 63 recinzioni completate o in fase di progettazione che interessano 67 paesi. La riunificazione di Berlino non è stata quindi altro che un’illusione, una speranza irrealizzata, forse irrealizzabile. La situazione di quegli anni non è così diversa da quella di adesso, anche se potrebbe sembrarlo. Allora si impediva alle persone di fuggire dallo Stato, adesso gli si impedisce di trovare riparo al suo interno.
Il muro è un simbolo materiale di qualcosa che esiste anche se non si può toccare, di qualcosa che non ha bisogno di essere concreto per essere presente. Il muro è divisione, ma la sua caduta non significa che la divisione non esista più. C’è divisione ovunque, in ogni paese, in ogni persona. Berlino nel 1989 ha compiuto un passo verso un mondo più unito, ma la strada è ancora lunga, la meta un miraggio. Anche perché la direzione verso cui stiamo procedendo sembra essere quella sbagliata.
Isabella Scotti