Sesto scrutinio, 738 voti e dopo 26 giorni di stallo, 10 saggi, doppia dose di consultazioni e milioni di tweet, la Repubblica ha trovato finalmente la ricetta per una precaria stabilità: il suo primo Presidente rieletto. La politica italiana corre a Canossa a subire i rimproveri. Niente inginocchiamenti ed orecchie basse stavolta. “Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti (…) non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi.” Applausi.
Mi scusi, Presidente, ma temo che per fare i complimenti a questa democrazia, non sia più sufficiente sforzarsi con la fantasia. Le “elezioni” hanno ormai il sapore amaro di una battuta che non fa più ridere. È la strana sensazione di malessere che si presenta quando si mangia qualcosa di avariato. È la politica del paradosso, che gioca con le parole a mascherarsi da non-politica. Basta guardare gli ultimi a farsi chiamare ancora “partito”: con i loro modi retrò si sono condannati da soli. La “politica” ormai è marcita. Nessuno crede più che possa venirne davvero qualcosa di buono. Bisogna puntare sul nuovo, sul giovane, sul controcorrente! Bisogna “rottamare”, essere “tecnici”, essere “contro”. È questo che l’Italia ha bisogno di sentirsi dire, meno “partiti”, meno “politica”. Ha proprio ragione lei Presidente, qui ci vuole più “responsabilità”! Non si può certo servire un piatto preparato con ingredienti andati a male senza che gli elettori si lamentino. “Non posso sottrarmi ad un assunzione di responsabilità verso la nazione. Confido che vi corrisponda una analoga collettiva assunzione di responsabilità”. Aspettando di entrare al quinto scrutinio, aspettando di votare lei Presidente, Giuditta Pini, neo-parlamentare del PD, 28 anni, rimpiangeva i momenti in cui era “nei panni dei commentatori di facebook”. Con lei probabilmente anche gli altri giovani parlamentari, loro, i veicoli del rinnovamento di cui tanto si parla, che da mesi speravano di poter partecipare al governo di un Paese che per anni li aveva esclusi, prendendo finalmente in mano le loro “responsabilità” si sono trovati più disorientati di quanto si aspettassero. Poche settimane prima davanti alle telecamere di Ballarò, l’unico a cui i ventenni intervistati avrebbero affidato il Paese era il Papa. Inutile osservare che ci sono voluti secoli di battaglie ideologiche e civili per vedere il potere temporale scollato da quello religioso: bastano due “elezioni” un po’ troppo ravvicinate a far sognare il rewind. Questo è il Parlamento più giovane della storia della Repubblica, Presidente, e corre a nascondersi dietro le sue ginocchia rassicuranti di ottantenne. La applaude, si applaude. Applausi per questo capolavoro del paradosso. Davanti ad un quadro di Escher si resterebbe meno sorpresi. Mesi di primarie (reali e virtuali), campagna elettorale, accordi, disaccordi, tecnicismo e plebisciti sul web, rinnovamenti e rottamazioni e gli ingredienti per formare un governo ancora non c’erano. Il pastiche della politica è rimasto per l’ennesima volta a tutti sullo stomaco. Ci scusi presidente, ci scusi davvero, ma se vogliamo mandar giù “l’acquaccia amara” abbiamo ancora bisogno, come il burattino di Collodi, di qualcuno che ci convinca a farlo.
Federica Baradello