Come tutti gli scambi, l’umore di partenza è altalenante almeno quanto lo è quello di arrivo: c’è chi spera che il letto non sia pieno di acari, chi è praticamente sicuro che si romperà una rotula cadendo dalla bicicletta e chi vede solo il lato migliore delle cose, il cosiddetto “bicchiere mezzo pieno” e quindi parte felice, contento e beato.
Beh, nel caso della mia classe, le premesse non erano esattamente rosee: i nostri corrispondenti erano praticamente tutti più piccoli di noi di uno o due anni, sostanzialmente gelidi e francamente poco accomodanti, nonché preparati in maniera inquietante a fare i conti con quello che per noi sembrava un modo di impiegare il tempo, ma che per loro sembrava la distanza che intercorreva fra vita e morte: il “Project”.
Ma procediamo con ordine; dicevo, lasciamo Caselle in una luminosa domenica mattina di fine marzo a bordo di un aereo piuttosto piccolo e poco rassicurante con la prospettiva di tuffarci nella coltre semiperenne di nubi che sovrasta minacciosa la piattissima Olanda.
Incerti non erano solo il tempo, l’umore, la destinazione e il da farsi, ma anche le nostre valigie: magliettine, canotte e pantaloncini si alternavano a maglioni, calzettoni e pigiami di lana dall’aria noiosa. L’unica costante? La felpa. E l’ombrello. O il K-Way.
Atterriamo nel mastodontico aeroporto di Amsterdam, che coi suoi 50 gates (o giù di lì) fa impallidire notevolmente la cara vecchia Caselle e, senza nemmeno respirare l’aria della città, scendiamo sottoterra e prendiamo un treno, direzione Zwolle.
Zwolle è riuscita a risollevare le speranze persino a me, che di quello scambio proprio non volevo saperne; l’ordine olandese non è solo un mito: strade pulitissime, case che sembrano di marzapane i cui proprietari curano i giardini con l’etica del “la-mia-erba-è-più-verde-della-tua” e sembrano aver bandito le erbacce con un rito satanico. Inquietante.
Tutti gli Olandesi, nessuno escluso, hanno passato metà della loro vita in sella ad una bicicletta, facendo andata e ritorno da scuola con neve e grandine, sole, pioggia, tornado e monsoni con una ventina di libri appesi alla schiena, senza battere ciglio.
Se si vuole parlare del cibo, dire che l’Olanda sia il paese dell’eterna merenda è quasi eufemistico: gli Olandesi mangiano qualsiasi cosa, in qualunque momento. Non esistono pranzi, solo merendine, biscotti, caramelle, piccoli panini alla marmellata che lasciano abbastanza insoddisfatti. A cena si mangia alle sei e il pasto è costituito prevalentemente o da patate, o da succo di pomodoro o da mezza salsiccia, con l’aggiunta di molta frutta, gelato, cibo fritto da asporto preso allo “snack bar” o cinese.
Le insegnanti olandesi sono un misto tra Dracula e l’ideale di bellezza femminile del tredicesimo secolo: bellissime, gentili ma assatanate. Hanno di fatto soppiantato le nostre professoresse nella gestione dello scambio, costringendoci a lavorare ad una presentazione a proposito delle differenze culturali fra nord e sud Europa all’andata, e ad un ideale utopico di un’Europa politicamente unita (di cui la chiave di lettura principale era solo del melensissimo buonismo) al ritorno.
Tutti gli Olandesi credono in Dio, e non crederci è più grave di “squartare gente a freddo” nella lista delle priorità: molti di loro si sono scandalizzati sentendo del nostro ateismo o comunque scarso interessamento in materia.
I simboli olandese sono il tulipano, le tre X, la pornografia, la marijuana, i fenicotteri e le facciate delle case.
In Olanda può capitarti un alimento particolarmente schifoso che ti tocca mandare giù per non offendere a morte la tua famiglia ospite, oppure imbatterti in un coniglio dolcissimo mentre vai a scuola; potresti doverti confrontare con ragni giganti o vedere lo squarcio paesaggistico migliore della tua vita; puoi dover camminare piegato nella tua camera nel sottotetto, attento a non procurarti una commozione cerebrale, o sentirti in un film americano con un hamburger in mano in un giardino, davanti al fuoco, giocando a qualche gioco stupido sotto le stelle … Magari l’Olanda può non piacerti alla prima impressione, ma quello di cui posso stare certa è che se all’andata non volevo partire, al ritorno non volevo rincasare.
Giulia Beltramino (4B)