Com’è andata in Africa? Una domanda che ormai mi è così familiare ma alla quale riesco solo a rispondere con un bisillabo al quanto riduttivo. Bene. Ecco tutto ciò che riesco a dire. Mi piacerebbe non risultare una pazza agli occhi degli altri, ma la verità è che non ho parole per descrivere la mia esperienza laggiù, ho solamente pensieri che mi invadono la mente e sensazioni che mi scorrono lungo il corpo. Credo sia questa la magia dell’Africa: ti lascia stupito, sconcertato. Mentre ero sul pullmino che mi portava verso il villaggio, il mio sguardo si posava su ogni persona lungo la strada, sulle case, sul paesaggio e non avevo tempo di pensare perché ogni dettaglio di quello scenario affogava la mia mente. Così ora, a distanza di un mese, cercherò di riorganizzare i pensieri e parlare dell’esperienza più sensazionale che abbia mai vissuto. Mi sono realmente resa conto di essere in Africa solo quando sono uscita da quell’aeroporto, che forse misurerà quanto il diametro della mia scuola: inizialmente non mi ha colpito il livello di povertà del posto, ma semplicemente il modo in cui la gente affronta uno stile di vita che per noi sarebbe impensabile.
Ho un’immagine vivida di bambini che giocavano nel fango davanti a casa, ragazzi non più grandi di me che portavano il fieno in mezzo alla strada bloccando il passaggio delle poche macchine che circolavano, donne che si dirigevano ai campi e un vecchietto in bicicletta che indossava una sola scarpa. È strano a dirsi, ma ogni persona che ho visto me la ricordo col sorriso, o per lo meno serena. È una cosa che all’inizio non riuscivo a spiegarmi, poi i loro sorrisi sono diventati contagiosi e ho capito di essere circondata da gente che non pensa al domani, ma vive il presente, che non realizza concretamente quanto poco possiede perché non ha mai visto il di più, quel di più che noi riteniamo essenziale.
Così mi sono abituata a quella spensieratezza stampata sui loro visi, a quella vita senza pensieri che loro praticano e a quelle due parole che riecheggiano sempre nell’aria: Hakuna Matata.
Potrei raccontare dei colori, dei profumi, dei paesaggi, ma in realtà credo siano le persone che hanno reso la mia esperienza indimenticabile.
All’inizio ero un po’ intimidita, forse perché mi sentivo di troppo, ma l’ospitalità di quella gente, l’attenzione che ti dedicano e i loro semplici saluti che non mancano mai, mi hanno fatto in poco tempo sentire a casa.
Un giorno un signore mi ha guardato negli occhi, mi ha chiesto chi fossi e dopo avergli risposto di lavorare come volontaria lui ha alzato lo sguardo e mi ha detto grazie, o meglio Asante Sana. Grazie di essere qua.
Blackout: ecco il genere di sensazione che mi percorre il corpo e che non riesco a spiegare, nemmeno nella mia testa.
Poi ovviamente ci sono i Watoto, bambini dalla personalità più forte della nostra, bambini che pur non avendo niente riescono a insegnarti così tanto. Mi sono sempre chiesta dal primo giorno passato con loro, come mani tanto piccole riescano a scaldarti il cuore così velocemente. Io ero lì, a giocare e a ridere, in mezzo ai Watoto. Pensavo in Italiano, parlavo in Inglese e loro mi rispondevano la maggior parte delle volte in Swaili, ma poco importava. Bastavano le nostre attenzioni, la nostra presenza. Mi sentivo così forte e allo stesso tempo così impotente; io più che me stessa non potevo offrire, più del mio essere lì, in quel momento.
La sera guardavo le stelle, non erano le stesse che si vedono qui in città: quelle raccontavano una storia. Nel momento in cui ho visto tre stelle cadenti, ho capito di non voler desiderare nient’altro che stare lì, in quel posto così lontano da casa ma che sentivo così vicino.
Ora sono qua ed è scontato dire che a volte quella gente mi manca così tanto da non riuscire a parlare proprio dell’Africa; mi chiudo a riccio, trattenendo tutti i ricordi e le sensazioni che mi fanno sempre sorridere e allo stesso tempo mi rendono malinconica.
Quindi ogni tanto, prima di addormentarmi, riesco ancora a rivivere qualche ricordo.
I bambini chiedono di me per giocare a palla, o come dicono loro mpya. Arrivano dalla spiaggia e poggiano le manine sul legno della porta, si arrampicano allungando i piedini e scrutano attentamente le persone al di là dello steccato. Ora tocca a me, loro hanno fatto la loro parte: hanno preso coraggio, si sono fidati di quella ragazza di colore (così dicono loro). Io ho solamente un pallone, un po’ troppo sgonfio a dire il vero. Ma poco importa: io sono lì, al di là dello steccato, al di là del loro mondo. Mi ci vuole meno di mezzo secondo per chiudere il libro che stavo leggendo e alzarmi dalla sedia. Quando inizio ad avanzare verso la porta i loro occhi si illuminano, staccano le manine dalla recinzione per farmi passare e indietreggiano. I miei piedi vengono immersi da sabbia così fine che sembra di camminare sulle nuvole e quando apro la porta di legno ormai il gioco è fatto: sono entrata nel loro mondo. Li sento ridere, scherzare, avvicinarsi timidamente. Sono una di loro, almeno per quei dieci minuti, almeno per la durata di una partita.
Martina Tomasella (4F)