Si dice che quando sogni in un’altra lingua, quella lingua è tua. Che non è più uno strumento di comunicazione razionale ma appartiene all’inconscio.
A me hanno detto che per rendere la tua esperienza perfetta devi riuscire a fare due cose: piangere all’aeroporto salutando quella che ormai consideri la tua famiglia e sognare nella lingua del tuo paese ospitante.
Ed è per questo che quando ti svegli alle tre di mattina e realizzi che quello che hai appena fatto era un sogno perfetto, un sogno perfetto in inglese, ti si disegna sul viso un sorriso, perché forse quella lingua è finalmente anche un po’ tua.
Così cominci a chiederti come sia possibile: come sia possibile che senza aprire un libro, senza studiare liste di vocaboli, senza fare un esercizio, si riesca a padroneggiare una lingua straniera. Non riesci a capire il motivo per il quale durante la prima assemblea d’istituto avevi intercettato per caso solo la parola “Rugby” e ora capisci tutto oppure come sia possibile che quando vedevi i film a scuola avevi bisogno dei sottotitoli e ora ridi alle battute di Hugh Grant. Dopo più di tre mesi dalla mia partenza per la Nuova Zelanda credo di essere arrivata a quel fatidico punto in cui non ti ricordi più l’italiano, così che anche se ti trovi con qualcuno che parla la tua lingua non riesci ad evitare le parole in inglese, perché in fondo suonano meglio. Avvengono le prime incomprensioni quando per esempio chiedi: «Ti lascio la mia camera, allora?» e ti rispondono: «Perché tu dove vai?». Il problema è che tu intendevi la “macchina fotografica”.
E poi assumi tutte quelle espressioni locali che forse non ti serviranno mai nella vita: “Crack up”, “Hang on”, “My bad” o “Up to”. Perché quante volte ti ricapiterà di dire che un cosa ti “fa sbellicare (crack up)” in inglese? Per non parlare dell’uso txt lengugge, anche essa grande dimostrazione della padronanza della lingua, ovviamente acquisita inconsciamente.
Ma come accade tutto questo? Sinceramente non lo so, ma ora GTG CYA XOXOX.
Sofia D’Angelo (4C)