“La realtà è avvenuta, ma se non viene raccontata non esiste” (Mimmo Càndito)
Gli inviati dell’Umbertimes, armati delle famose penne affilate, hanno incontrato Mimmo Càndito, presidente italiano di Reporters sans Frontières, in occasione della manifestazione Open Mind.
Quante volte ci siamo sentiti orgogliosi di poter sfoggiare un Paese democratico, dove esiste la libertà di stampa, dove i fregi neri della censura non intervengono sulle copertine delle riviste e dove i libri non vengono ritoccati?
Spesso, sicuramente, e il fatto che nessuno ci vieti di scrivere e fotografare liberamente per esprimere la nostra opinione è certamente qualcosa di positivo.
Ma, riflettiamoci un momento, sarebbe realmente possibile vietare la pubblicazione di un articolo piuttosto sgradito al governo? O operare perché un libro con troppi nomi venga modificato?
Ovviamente no. Ci si presenterebbe agli occhi del mondo come dittatori, come coloro che ledono il diritto alla libera espressione delle opinioni personali.
E anche l’opinione pubblica ne sarebbe scossa, con gravi risultati per la propria carriera politica, visto che spesso chi opera la censura sono i cosiddetti rappresentanti del popolo.
Meglio, molto meglio, allora, lasciar credere alla gente di ricevere informazioni veritiere, e invece fornirgliene di opportunamente modificate. Si ottiene così il più alto scopo: avere il pensiero di una nazione in pugno senza passare per capi di stato senza scrupoli, disposti a tutto pur di mantenere il proprio posto.Che, spesso, è quello che realmente si è.
Così è nato il diabolico sistema del news management, letteralmente “gestione delle informazioni”.
Come funziona questa macchina sforna-notizie, dalla quale riceviamo buona parte delle comunicazioni su ciò che accade lontano dai nostri occhi?
Semplicemente, quelle che noi crediamo informazioni che “i nostri inviati” siano andati a cercare e che raccontino fatti visti dagli inviati medesimi con i propri occhi, sono in realtà la rielaborazione di misteriose cartelline che vengono consegnate ai giornalisti da alti ufficiali dell’esercito, vietando però loro di penetrare nelle zone dove il conflitto è in corso.
Ecco come, spesso, hanno origine i lunghi articoli sugli scontri più sanguinosi.
Insomma, al giornalista vengono fornite montagne di informazioni che solo pochi hanno la voglia di andare a verificare, sempre nel raro caso in cui ciò sia possibile, perché spesso l’ingresso delle zone di conflitto è controllato da posti di blocco dell’esercito, che fermano chiunque voglia oltrepassare quel confine, frontiera in qualche modo tra realtà e menzogna.
Oltre quel posto di blocco, infatti, ci si renderebbe conto che le foto di soldati caritatevoli che aiutano bambini affamati sono spudorate finzioni, che i morti, i feriti, i pezzi di esseri umani smembrati dalle bombe esistono, anche se stranamente non compaiono nelle immagini e di loro non viene fatta parola nei reportage.
Ci sono però casi in cui i giornalisti non accettano di essere il primo ingranaggio del news management accettando le cartelline, ma si spingono oltre il confine nonostante il divieto e raccontano cos’è in realtà la guerra.
Anche questo ennesimo orrore tipicamente umano ci viene infatti venduto come fosse qualcosa che sia necessario acquistare per mantenere il nostro stato di paese benestante. Ci viene fatto sembrare giusto, naturale, da quelle stesse agenzie pubblicitarie che ci invogliano tutti i giorni a comprare un certo prodotto. E noi, molto spesso, non ci accorgiamo della finzione.
Non ci rendiamo conto di essere ciechi di fronte alla verità perché ce ne viene propinata una che ci pare più convincente perché è pronunciata dal nostro idolo: la televisione.
Il 70% degli Italiani ricava tutte le sue informazioni da questo elettrodomestico, solo un misero 24% legge i giornali e fra questa quantità chissà quante persone scelgono senza saperlo riviste influenzate…
Proprio perché la stragrande maggioranza dei nostri connazionali accetta come vero ciò che viene detto dalla TV, è televisivo il primo team di giornalisti che viene espulso dalla zona di conflitto se è riuscito a penetrarvi illegalmente: perché è l’unico tipo di informazione che riesce a modificare l’opinione pubblica.
A questo proposito il padre del nostro beneamato George W. Bush, Bush senior, pronunciò una famosa frase al momento dell’entrata in guerra contro l’Iraq, nel 1990:
“Mi raccomando, non combattiamo più con una mano dietro la schiena.”
Questa frase fa riferimento alla guerra in Vietnam, sulla quale l’opinione pubblica aveva espresso un deciso parere negativo perché informata da giornalisti scrupolosi delle atrocità che avvenivano, a partire dall’uso di defolianti altamente inquinanti.
Nella neonata guerra in Iraq invece il presidente si preparava a non avere più nessun fastidio da parte dell’opinione pubblica, perché questo conflitto le sarebbe stato adeguatamente venduto da una adeguatamente influenzata televisione, le cui notizie cominciavano ad essere prese per oro colato dalla popolazione.
Proprio durante questa guerra ad un esperto di informatica – cominciava allora la diffusione dei computer – venne chiesto di inviare delle immagini di battaglia in cui egli si stupì di non vedere né morti né feriti.
Questa guerra può quindi essere definita il periodo di nascita del news management: da allora in poi è sempre più difficile trovare quei giornalisti che, con i loro resoconti di fatti realmente accaduti, ci aiutino a distinguere tra vero e verosimile, tra accaduto e consegnato in cartelline.
Chiara Murgia (1C)