Ho provato a fare un’analisi della poesia, del pensiero di Rudel, ho provato a prenderne dei versi e a “tagliarli” come un chirurgo, per conoscere lo schema o la tecnica usata. Ho provato a parlare della sua storia, di quel poco che è arrivato fino a noi, ed anche a estrapolarne una parte migliore delle altre, una citazione da portare ad esempio.
Fogli scarabocchiati.
Carta straccia.
Inutili, e indegni di ciò che vorrei dire realmente.
Ieri sera mi sono trovato a rileggere le pagine della letteratura (Grosser); ho letto alcuni testi, sottolineato un po’ di nomi, di date, e poi mi sono fermato, proprio a questo testo di Rudel.
L’ho letto più volte. Ogni volta che lo leggevo notavo cose nuove, sentivo emozioni diverse e capivo il poeta: il suo dolore, la sua timida gioia. “vedevo” chiaramente i suoi sentimenti come immagini nitide e reali che sfoggiano i loro colori in un crescendo lento e costante, fino a sciogliersi, nell’ultimo verso, come bellissime statue di ghiaccio.
Non voglio parlare della lirica provenzale, non mi importa adesso sapere o far sapere se questa poesia potrebbe essere una ballata oppure una canzone o qualsivoglia altra cosa.
Questa poesia è un esempio perfetto di come l’arte della lirica provenzale sia arrivata ad esprimere un significato nuovo, un mondo nuovo, nascosto dietro la sua struttura tipica.
Se le altre poesie dei trovatori parlano di un amore concreto verso una persona reale con cui hanno avuto in qualche modo un contatto che ha scatenato questo sentimento, Rudel parla invece dell’amore stesso, un amore verso una bellezza e una dolcezza sconfinate identificate in una persona che il poeta non ha mai conosciuto prima e che probabilmente non conoscerà mai nel corso della sua vita.
L’amore che lui prova non è quindi rivolto a qualcosa di reale, ad una persona fisica, ma ad un’immagine, un pensiero.
Probabilmente la Contessa di Tripoli di cui parla Rudel, la sua amata, non è nemmeno esistita; ma questo non è importante. Anzi, è proprio per questo che il suo concetto di Amore spicca sopra tutti, che lui risulta diverso da ogni altro poeta dell’epoca: perché è un poeta “astratto”, un artista “astratto”.
Tutto ciò che egli scrive è pura astrazione, puro sentimento, amore alla stato puro.
Innamorato dell’amore.
Jaufré Rudel è innamorato di qualcosa che non può raggiungere, che non può possedere, come dice Andrea Cappellano nel “De Amore” e vive immaginandolo, immaginando di andare verso questa cosa, di viaggiare per raggiungere ciò che ama, la sua dama.
Vive con se stesso e con una donna fatta della carta delle sue poesie, che resterà nel tempo come un simbolo, che farà parlare e crucciare studiosi e semplici lettori.
Forse è questa irrealtà, questa atmosfera onirica che trasuda dal testo che mi ha attirato, forse la cadenza lenta e costante dei versi, o forse mi ha colpito la terzina finale, il suo spietato realismo.
Ma quel che è certo è che questa poesia mi ha lasciato qualcosa, mi ha “infettato” forse, di una concezione nuova dell’amore, e perché no, anche della stessa realtà.
Si dice che Rudel partì, un giorno, per raggiungere la sua amata nella Terra Santa.
Arrivò a Tripoli gravemente malato e fu portato in un albergo dove chiese di poter vedere la Contessa. Quando lei lo venne a sapere andò sul suo letto di morte e, commossa, lo prese fra le sue braccia. Egli riprese i sensi per un momento, la sentì vicino a sé e ringraziò Dio, per quell’unico momento di vera felicità.
Morì subito dopo averla vista.
Lei, per il dolore, si fece monaco e lo rimase per tutta la vita.
Pietro Pagliana (3F)