Haiti: l’ennesimo esempio di memoria corta?

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Haiti, dopo il 12 gennaio 2010

Haiti, dopo il 12 gennaio 2010

Cinquecentodiciotto anni dopo la sua scoperta, il 12 Gennaio 2010, gli eredi dei mandanti dei “conquistadores” si sono ricordati dell’esistenza di Haiti. È stata necessaria una catastrofe naturale con decine di migliaia di vittime (il numero preciso non si saprà mai) perché il mondo, catturato da un’ondata di buonismo ipocrita, trovasse il modo per esprimere tutta la sua generosità e benevolenza verso questi sventurati, vittime secolari di tutte le possibili angherie da parte delle popolazioni civilizzate succedutesi nel corso degli anni sul proprio territorio. Inizialmente i cosiddetti “civilizzatori” si sono esibiti seguendo il loro classico repertorio: eliminazione degli indigeni e deportazione degli schiavi; quindi sono passati ad un altro pezzo altrettanto famoso: lo sfruttamento dei sopravvissuti, e per concludere in “bellezza”: l’abbandono al proprio destino e l’inevitabile decadenza. Lo stato di Haiti, situato al centoquarantanovesimo posto (su centoottantadue) nella classifica della ricchezza degli Stati del mondo, è più conosciuto (quando non viene scambiato per la più elitaria Tahiti) per le malefatte dei Duvalier (e dei loro Toton Macoutes) nella seconda metà del novecento e per il pittoresco rito religioso del voodoo. Uno stato noto ai più per via delle sue apparizioni cinematografiche, ma non per le reali condizioni della popolazione. L’80% degli abitanti vive (o meglio, viveva) con appena un dollaro al giorno, l’aspettativa di vita “era” di circa cinquanta anni e la mortalità infantile “era” di uno a tre. Perché dunque il mondo si è ricordato di questo Stato caraibico solo dopo che è stato quasi raso al suolo? Com’è possibile che un bambino morto attiri più l’attenzione di uno che sta per morire? Non si dovrebbe cercare di fare qualcosa prima che diventi troppo tardi? Forse per Haiti il lasso di tempo indicabile con “troppo tardi” andava collocato prima che gli occidentali la scoprissero, ma allora l’aiuto ai Paesi poveri non rientrava negli interessi degli uomini civilizzati. Nel  Novecento, però, la sensibilità per i paesi del Terzo mondo comincia a farsi sentire, ma nessuno ha fatto nulla per fermare gli stermini portati dai regimi dittatoriali locali e, ora, che è veramente troppo tardi, l’umanità si ricorda dell’esistenza degli haitiani. Non era meglio pensarci prima? Inutile forse starci tanto a riflettere, quel che è fatto è fatto. Meglio  meditare su cosa fare dopo e cercare una soluzione non stia in qualche barattolo di cibo in scatola mandato da oltre oceano o in qualche sms inviato in più per placare la coscienza. Quella stessa coscienza che deve essere ben corazzata per quei croceristi che non hanno rinunciato a passare una giornata di svago sulle tormentate spiagge dell’isola o per i vicini dominicani che hanno chiuso le frontiere per difendersi da un’eventuale ondata di sfollati. Alla faccia della solidarietà umana!

Che quella del Caribe sia un’area sottoposta ad ogni tipo di calamità si sapeva: solo negli ultimi due decenni sull’isola si sono abbattuti sette disastrosi uragani (di cui quattro solo nel ’98) che hanno provocato circa 5000 vittime e danni incalcolabili all’economia locale. L’ultimo terremoto pare proprio l’ennesimo esempio del fatto che certi disastri naturali colpiscano più volentieri le aree del Mondo meno sviluppate.

L’attivismo e la prontezza di intervento di una parte dei soccorritori hanno suscitato polemiche in quanto sembrano più mirati verso un interesse espansionistico (si parla della cinquantatreesima stella) che non al bene della popolazione, però c’è da domandarsi cosa sarebbe successo se questa prontezza non ci fosse stata: ci si sarebbe limitati ad interventi bloccati da lungaggini organizzative e logistiche?

Inoltre sorgono alcuni dubbi correlati al futuro delle azioni messe in atto dai governi mondiali per aiutare questa repubblica “delle banane”, visti le altre tragedie della storia recente, che hanno coinvolto emotivamente una larga parte della popolazione globale. Infatti: chi è in grado di ricordarsi del conflitto tra Tutsi e Hutu? Chi sa qual è la situazione del Corno d’Africa? O quella in cui versano le zone colpite dallo tsunami nel 2004 o da quelli negli anni successivi? Chi è informato sull’evoluzione della crisi umanitaria del Darfur? Solo una minima parte di noi ne è a conoscenza. La speranza è che, visto lo stato di abbandono di Haiti prima del terremoto, questa sia l’opportunità per l’Occidente di pagare il suo debito verso la storia e non l’ennesima utopia (e presa in giro).

 

Carlotta Monge (3C)

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