Ci sono momenti, nella vita di ognuno di noi, quando ci soffermiamo a pensare a cosa stiamo facendo della nostra esistenza. Momenti in cui ci mettiamo a riflettere sul nostro passato, presente e futuro, su quello che è stato e su quello che deve ancora essere. Momenti profondi in cui ci sentiamo incredibili filosofi e teniamo una seduta psichiatrica con noi stessi, cercando di analizzare le nostre azioni passate e le possibili conseguenze che potrebbero avere, senza mai conseguire troppi risultati. Momenti in cui l’unica cosa che vogliamo veramente è tirarci una padellata in testa per far cessare il flusso incontrollabile di pensieri, la testa che scoppia e implora pietà.
Per un exchange student quasi alla fine del suo periodo all’estero, questo stato d’animo è ancora peggio del normale. La data della partenza si avvicina pericolosamente: un mese, tre, due settimane che ticchettano via come niente, mentre si cerca affannosamente di stare al passo. Metà di noi è ancora qui, in mezzo alla gente che non smette mai di chiederti quando partirai e tu che, pazientemente e con un briciolo di malinconia, ripeti ogni singola volta. (“Wow, that’s so soon.” Grazie tante, non c’è bisogno che me lo dica tu.) Poi c’è l’altra metà, quella “patriottica”, che ti fa pensare ai tuoi amici in Italia: a chi piangerà di gioia quando vi rivedrete, a chi farà una battuta per sdrammatizzare, a chi non dirà una parola e si limiterà a sorridere e stritolarti in un abbraccio di ferro.
È così che cominciano le notti insonni. Ore passate a girarsi e rigirarsi nel letto, pensando a come puoi rendere gli ultimi giorni del tuo soggiorno i migliori di sempre. Gli amici americani cercano di aiutarti, provando a non menzionare il fatto che fra tre, quattro settimane sarai su quell’aereo che ti porterà dall’altra parte dell’Oceano. Forse per sempre. Cercano di resistere al bisogno di dire “Mi mancherai”, mentre tu li guardi e pensi che molto probabilmente non li vedrai mai più in tutta la tua vita. E loro si impegnano a passare con te quanto più tempo possono, quando tu invece cerchi di distaccarti per rendere l’addio meno doloroso.
Nel frattempo, i seniors praticamente impazziscono. Il loro ultimo giorno di liceo di sempre è alle porte, e non è difficile sentirsi partecipi dell’atmosfera a scuola. La frenesia si impadronisce dell’edificio, insieme a malinconia e un briciolo di tristezza. La gente gira per i corridoi e le classi con foto e annuari da far firmare agli amici, scambiando memorie provenienti da troppo tempo fa, mentre ogni conversazione si concentra rapidamente sull’argomento “Non vedo l’ora che sia agosto e cominci il college.” Presto arrivano per tutti il cappello e la toga che verranno indossati per la Graduation, la cerimonia della consegna dei diplomi, e a quel punto si è investiti da un torrente di eccitazione che domina l’intero corpo studentesco. I juniors sono eccitati perché tra poco saranno loro i nuovi seniors, mentre questi ultimi non fanno altro che pensare a feste post-diploma e a come decorare la loro camera al college, sperando che il loro compagno di stanza sia a cool guy. Come dice Logan Lerman nei panni di Charlie Kelmeckis, protagonista del film The Perks of Being a Wallflower (Noi Siamo Infinito), “È tutto incredibilmente eccitante. Vorrei solo che stesse capitando a me.”
Arriva poi, finalmente, la sera della Graduation. In un palazzetto dello sport grande quasi quanto il Palaisozaki, con tanto di palcoscenico decorato da piante finte e tappeto rosso, sfilano tutti i diplomati nei loro completi di toga e cappello, acclamati dalle famiglie con grida e fischi. Così, tra melodie suonate dall’orchestra della scuola, discorsi brevi e interminabili, applausi e ovazioni, i ragazzi americani finiscono un capitolo della vita e ne cominciano un altro, che li porterà chissà dove. Il lancio del cappello non è solo un rituale che indica il passaggio da studenti del liceo ad universitari, ma un modo per esprimere la propria emancipazione e il desiderio di continuare per la propria strada, costruendosela mano a mano che si va avanti. Un modo per dire: “Grazie per avermi aiutato fin qui, ora è il mio turno.”
Ora è anche il mio turno, quello di tornarmene in Italia. Ancora non riesco a credere come questi dieci mesi siano passati così in fretta, uno dopo l’altro, ticchettando via senza sosta. Ti rilassi un attimo e il tempo è diventato estivo, gli alberi sono in fiore ed è ora di partire; ciò che prima era “Ma si, lo faccio poi” si è trasformato in “Accidenti, devo farlo adesso perché non c’è tempo.” La camera da letto è più incasinata che mai, con vestiti sul letto, l’armadio spalancato, scarpe sparse sporadicamente sul pavimento, libri e dizionari impilati a caso sulla scrivania; ti guardi intorno e la vista di tutta la tua roba ti assale opprimente, facendoti salire l’angoscia e la nausea.
Nausea, l’espressione della sensazione agrodolce della partenza. La partenza più difficile che si possa mai provare, la partenza che separa due vite diverse e parallele che nessun miracolo potrà mai far incontrare.
E chissà se questa volta riusciremo a trattenere le lacrime? Probabilmente no, ma dopotutto piangere non è la soluzione ai problemi della vita. Come disse Theodor Seuss Geisel, scrittore e illustratore del secolo scorso, “Non piangere perché è finito, sorridi perché è successo.”
Grazie, America.
Matilde Revelli,
Corrispondente dagli Stati Uniti