“Prima o poi ogni muro cade”.
Colui che, con speranza e fiducia, scrisse queste parole sulla parte occidentale del muro di Berlino probabilmente non considerò che l’uomo è meschino e non impara mai dai suoi sbagli.
“Prima o poi ogni muro cade”. Ma prima o poi ne verrà costruito un altro.
1948. Dopoguerra. Se i tedeschi speravano che la fine della guerra avrebbe favorito un miglioramento della situazione sociale si sbagliavano. La Germania, come del resto tutta l’Europa, venne divisa in due parti: la parte occidentale, sotto il controllo degli Stati Uniti e con un governo di stampo liberale; la parte orientale con un governo di stampo socialista, sotto il controllo sovietico. Questa divisione del territorio, che doveva inizialmente essere momentanea, venne resa permanente favorendo in occidente lo sviluppo della Repubblica Federale Tedesca e in oriente quello della Repubblica Democratica Tedesca (meglio conosciuta come DDR). La cosiddetta “cortina di ferro” non divise soltanto a metà il territorio tedesco, ma creò una breccia nel cuore della Germania. Se inizialmente i cittadini potevano liberamente spostarsi dalla parte occidentale del paese a quella orientale, e viceversa, quando il flusso divenne unidirezionale (da est a ovest) e sempre più imponente, la DDR prese la decisione di isolare Berlino ovest costruendo un muro per bloccare l’emorragia di forza lavoro qualificata. Se inizialmente i tedeschi provarono a superare il confine, dopo che i soldati lo trasformarono in una “striscia della morte” ci pensarono di certo due volte prima di tentare di oltrepassarla. Il simbolo della guerra fredda per antonomasia venne abbattuto nel 1989, dopo che decine di migliaia di cittadini tedeschi orientali aggirarono il muro attraverso la frontiera austro-ungherese. E vissero tutti felici e contenti, o quasi.
Se a Berlino nel 1989 qualcuno ha “preso un martello per fare breccia nel cemento”, a Belfast tutto ciò non è mai accaduto e, secondo l’opinione pubblica, non accadrà mai. Durante la guerra civile tra cattolici e protestanti, le due comunità vennero separate da ‘’Peace lines’’ – “Linee della pace” – per essere protette dagli attacchi che l’una compiva nei confronti dell’altra. Obiettivo: protezione dei cittadini. Bisogna dirlo, quelli degli irlandesi erano proprio degli ottimi propositi. Paradossalmente però la costruzione di queste barriere raggiunse l’apice proprio dopo che la guerra terminò. Per essere precisi, l’ultima barriera venne eretta nel settembre del 2011. Fortunatamente l’uomo ha una coscienza e talvolta riconosce i suoi sbagli. Si decise dunque di affrontare il razzismo e altre forme di intolleranza per plasmare una società unita, in grado di andare avanti. Come? Abbattendo le Linee della pace. Quando? Forse nel 2023. Se Belfast vivrà mai davvero un momento come quello che vide protagonisti i tedeschi non lo si può prevedere. Lo si scoprirà solo vivendo.
Mentre nel 2013 l’Irlanda reputò corretto di dire no alle barriere e guardare al futuro, la Grecia decise che il fiume Evros non era più sufficiente a separare il territorio greco da quello turco. La Grecia è sempre stata protagonista di divisioni, spesso causate dalla lingua e dalla cultura – come nel caso della Macedonia. Ma più recentemente, proprio come il resto del mondo, anche la madrepatria della filosofia è stata colpita dal problema dell’immigrazione. Alla fine del 2010 il 90% degli ingressi irregolari di persone nell’Unione Europea avveniva alla frontiera tra Grecia e Turchia. Nel 2011, è stato registrato un ulteriore aumento degli ingressi, che superavano i 50.000 all’anno. Non riscontrando collaborazione da parte della Turchia per contenere questi flussi migratori, la Grecia ha reagito proprio come qualsiasi altro Paese avrebbe fatto: ha innalzato una nuova barriera. Grazie ad essa circa 250 richiedenti asilo vengono fermati giornalmente.
E l’Europa in tutto ciò che fa? Quello che ha sempre fatto: se ne lava le mani. È la Grecia che finanzia la costruzione di questo muro? Serve a controllare i confini e bloccare i flussi migratori? E allora ben venga. Ryszard Kapuscinski, giornalista e saggista polacco, scrisse che “Ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro ha sempre avuto davanti a sé tre possibilità di scelta: farsi la guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo”. È evidente quale tra le soluzioni proposte sia la preferita dell’uomo. Innalzando muri non ci sono avversari da affrontare; innalzando muri non bisogna fronteggiare i problemi; innalzando muri si viene protetti dai “pericoli” del mondo esterno vivendo in una bolla di sapone. Ma questa bolla potrebbe anche scoppiare. E la sua distruzione significherebbe tornare al punto di partenza e dover scegliere tra la via del conflitto e quella del dialogo. Se si intraprendesse sin da subito la via del dialogo, il percorso da compiere sarebbe indubbiamente più semplice. Ma l’uomo è codardo e, piuttosto che combattere le controversie, continua a rimanere fedele a se stesso e a commettere gli stessi errori. E questo gli europei lo sanno molto bene. Se alcuni Paesi, dopo un’attenta riflessione, hanno ritenuto corretto liberare il territorio dai muri, altri sono ancora lontani anni luce dal prendere questa decisione. Altri ancora sono invece in procinto di riprendere là dove i loro vicini avevano concluso.
“Prima o poi ogni muro cade”. Ma prima o poi ne verrà costruito un altro.
Francesca D’Addeo