Blasfemia: libertà di offendere?

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L’offesa è uno dei meccanismi basilari del linguaggio. Quante volte ci capita di sentirci offesi dalle affermazioni di qualcuno che ci attribuisce caratteristiche che non ci appartengono, degradanti e grottesche, o che ci ridicolizza per il semplice gusto di farlo? Capita, e non si tratta di un’esperienza piacevole. Certo, alcuni hanno la capacità di lasciarsi scivolare addosso le opinioni anche quando offensive, altri non riescono a restare indifferenti.

Ma cosa c’entra questo con la blasfemia? E perché accostare questi due temi?

La risposta è sotto gli occhi di tutti: è fresco nella nostra memoria il ricordo delle stragi compiute in nome di una vignetta considerata blasfema, un’offesa per una divinità e per dei fedeli.

A chi vive in un contesto democratico come il nostro, dove ci si confronta e si dialoga, sapere che si è disposti ad uccidere per un disegno provoca sdegno e scandalo. Per quanto non ci si riconosca nelle opinioni degli altri, perché le si trova ingiuste, offensive e gratuite, nessuna persona di buon senso si sognerebbe di rispondere con la violenza.

Questo però non toglie che alcune espressioni, verbali e non, possano essere inopportune e ledere un diritto fondamentale di ciascun individuo: il rispetto per la propria identità.

Il nostro pensiero ci qualifica di fronte al resto del mondo. Le nostre idee sono il nostro biglietto da visita.

Anche se in pochi lo sanno, il 30 settembre è stata istituita una “Giornata in difesa del diritto di blasfemia” in ricordo delle vignette che vennero pubblicate nel 2005 dal quotidiano danese Jyllands-Posten e che diedero scandalo. Quelle rappresentazioni del poeta Maometto, la cui riproduzione è vietata secondo l’Islam, scatenarono episodi di protesta, anche molto violenta, in nome, appunto, della difesa della religione da atti blasfemi.

Bisogna fare chiarezza. Come mettere insieme tutti questi elementi? Come si legano il rispetto della sensibilità religiosa e la libertà di espressione?

La parola blasfemia affonda le proprie radici nella lingua greca (βλασϕημία) e significa letteralmente “detto dannoso”, “calunnia”. Nonostante in passato fosse un termine generico, oggi viene immediatamente associato alla religione e quindi all’insulto rivolto ad una divinità, ad una figura ritenuta sacra, con lo scopo di degradarne il valore.

Quest’associazione ci fa capire quanto oggi sia un fenomeno diffuso ma non deve trarci in inganno. La blasfemia è sempre esistita nelle forme più diverse.

Basti pensare al Socrate che compare nella commedia di Aristofane. Egli afferma addirittura che “Zeus non esiste” e inizia a illustrare una nuova triade divina!

Si possono snocciolare esempi su esempi, lungo tutto il corso della Storia.

Al contempo si sono sviluppate diverse forme di repressione della blasfemia e ancora oggi esistono leggi per impedirne le manifestazioni in pubblico.

Nonostante il Parlamento europeo si sia più volte espresso in favore dell’abolizione di qualunque reato d’opinione, anche rispetto al tema religioso, molti paesi riconoscono ancora il reato di “insulto alla religione”.

Spagna, Grecia, Irlanda e molti altri Paesi non hanno ancora adattato e modificato la propria legislazione in proposito.

In Italia il codice penale prevede una sanzione amministrativa per «chiunque pubblicamente bestemmi, con invettive o parole oltraggiose, contro la divinità».

È chiaro che la definizione di blasfemia sia molto ampia e possa trovare riscontro in contesti e realtà molto diverse. Proprio per questo occorre distinguere quella che potremmo definire come blasfemia gratuita dalla satira, che rifiutando l’ordine costituito, usa mezzi crudi e taglienti per indurre gli spettatori ad una riflessione.

Ma davvero serve una legge che impedisca un atto di blasfemia?

Molto spesso si sente discutere dei limiti che andrebbero o non andrebbero imposti alla satira. Ha senso questo dibattito?

Per sua stessa natura, esiste un solo scopo nella satira: ridendo castigare mores, ossia farsi beffa dei costumi, del comune senso del bene e del pudore.

Sotto un certo punto di vista, la libertà assoluta che la satira rivendica è una garanzia “democratica” a tutela di ogni cittadino. Tutto si può dire proprio perché tutto si può pensare. La satira rifiuta ogni filtro imposto da criteri di decenza perché dipende dalla società e da un sentire comune in perenne mutazione.

La religione non viene considerata un elemento fondante della vita di un individuo ma esclusivamente un’ideologia e pertanto, proprio come tutti gli altri bersagli delle vignette, ridicolizzata, criticata in modo pungente. In questo la satira si rivela molto “democratica”.

Esiste però una differenza fondamentale tra la religione e tutto il resto. La religione riguarda una dimensione trascendentale, privata e comunitaria, universale e soggettiva allo stesso tempo. Non è un fatto di politica, di costume o di società. Se vogliamo parlare di società, mettiamo piuttosto sotto la nostra lente di ingrandimento le istituzioni religiose, che sono composte da uomini e che, proprio per questo motivo, contengono elementi nocivi, che commettono crimini, reati, che vengono meno alla propria vocazione e che non sono né migliori né peggiori di tanti altri criminali che non si spacciano per portavoce di una divinità.

Dio lasciamolo in pace. Sono gli uomini che discutono con tutti i loro limiti. Che ci sia o che non ci sia, siamo noi gli unici responsabili delle nostre azioni.

Il limite della nostra espressione è dettato unicamente dal nostro buon gusto. Uno Stato che non permettesse a tutti di esprimere la propria opinione non sarebbe un luogo dove vorremmo vivere.

D’altro canto, bisogna pur sforzarsi di assumere il punto di vista di chi crede. Per un vero fedele, la religione è Vita. Un credente costruisce la propria identità in modo particolare attorno alla propria religione e non può certo scegliere di mettere una parte di essa in stand-by a comando. Questo non significa non riconoscere la preminenza della legge dello Stato e rinunciare alla propria dimensione di cittadino. La cultura europea vede la coesistenza di queste due diverse anime che non si elidono a vicenda ma contribuiscono alla varietà del nostro panorama umano.

Proprio come lo è la libertà, anche il rispetto è un nostro diritto e un nostro dovere. Quante volte ci è stata propinata la stessa cantilena: la tua libertà finisce dove comincia quella dell’altro. È un confine che non si può certo tracciare con il righello, ma esiste. Non possiamo credere di avere tutti i diritti ed ignorare i doveri.

La democrazia non è un self service dove si possa fare una selezione tra ciò che ci aggrada e ciò che invece costituisce un fastidioso limite. Già, forse perché noi uomini in generale abbiamo da sempre un rapporto conflittuale con il concetto di limite, e anche con il concetto di legge (scritta o non scritta che sia).

Le parole pesano e feriscono tanto quanto la violenza fisica. Vale in qualunque ambito. Sentiamo spesso parlare di bullismo e di violenza psicologica. Si tratta di un attacco verbale alle certezze che abbiano su noi stessi, alla stima che nutriamo per ciò che siamo.

Non si può certo pensare di dire: “Non è possibile offendersi.”

Addirittura Papa Francesco, universalmente noto come il Papa più aperto al dialogo dai tempi del primo conclave, ha usato un esempio semplice ma immediato rispetto al tema della libertà di espressione: “Non si può nascondere una verità: ognuno ha il diritto di praticare la propria religione senza offendere. Secondo: non si può offendere o fare la guerra, uccidere in nome della propria religione, in nome di Dio.” […] “Ognuno ha non solo la libertà e il diritto, ma anche l’obbligo di dire ciò che pensa per aiutare il bene comune. Avere dunque questa libertà, ma senza offendere. Perché è vero che non si può reagire violentemente. Ma se il dottor Gasbarri che è un amico, dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetta un pugno”.

Sicuramente con un diverso approccio, anche Papa Benedetto XVI aveva affrontato questo tema spinoso. Oggi viene meno il rispetto per la religione perché viviamo in una società figlia dell’Illuminismo, dove ogni credo non scientifico diviene automaticamente una “sottocultura” di importanza trascurabile.

Esiste un abisso tra chi ritiene di sentirsi offeso da alcune vignette e chi si sente autorizzato a reagire fuori dalla legge.

Non tutti devono amare la satira, anzi, proprio evocando forse sentimenti di stizza, di disgusto, raggiunge tutti, senza distinzione.

Perché esiste però la blasfemia gratuita? Perché ci si serve delle bestemmie per comunicare?

A quanto pare, senza particolari distinzioni tra credenti e non credenti, l’espressione di un moto di stizza, di rabbia o di una qualunque altra emozione che ci scuota, si rivela più efficace e liberatoria se passa attraverso una bestemmia.

Ci si sente più leggeri, più liberi, più espressivi? Può darsi.

Ma allo stesso tempo si riduce qualcosa di importante, anche solo per qualcuno, ad un semplice oggetto di scherno.

È chiaro che pensare di prendersela con qualcuno che si vede e non si ascolta possa non fare molto effetto. Ma tutti noi conosciamo almeno una persona che crede in qualcosa. Una qualunque religione. Quando si sentono espressioni di questo tipo, ci si sente feriti. Chiaramente nessuno parla con l’intenzione di fare stare male, ma purtroppo a volte questa è la conseguenza.

Nessuna religione trema davanti alla blasfemia. Sono i credenti a soffrirla. Le convinzioni restano tali e quali a prima e, nella loro immaterialità, non c’è matita che possa ferirle. Anzi, il dialogo non può che aiutarci a chiarire e condividere le nostre posizioni.

Forse oggi si potrebbe provare a superare l’immediata distinzione tra ragione e fede ed entrare, o almeno provarci, nell’ottica di un allenamento all’empatia. Il tentativo costante di mettersi nei panni dell’Altro, dell’illustre sconosciuto che incontriamo per strada, del nostro vicino, degli uomini che governano, di quelli che stimiamo e di questi che detestiamo è un ottimo sostitutivo di tante parole, a volte troppo dannose, a volte troppo pesanti.

Durante un dibattito tra giornalisti e uomini di fede Padre Occhetta ha affermato: “Ognuno di noi è sempre il custode del proprio fratello. E lo è in quanto essere morale. Il mondo non si divide tra credenti e non credenti, bensì tra uomini morali e uomini che morali non sono. Quando si abdica alle proprie responsabilità, ai propri doveri, si smette di essere dei veri uomini morali”.

Nessuno pretende che l’opinione sia un reato, ma è necessario ribadire che il rispetto nei confronti degli altri è sempre un dovere. Senza appellarci al principio del “tanto così fan tutti”, mettiamoci più coscienza.

Beatrice Cagliero

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