Gerald Holtom, l’artista che ideò il simbolo della pace, era da qualche parte in Inghilterra mentre i soldati americani combattevano in Vietnam. Nel 1957, quando quel simbolo a forma di albero rovesciato era solo un’idea abbozzata su un foglio di carta, James aveva quindici anni. Suo fratello diciassette. Avrebbero passato insieme solo le tre estati successive, poi James si sarebbe iscritto alla Columbia University di New York e Will sarebbe scomparso nel “Verde”, dove sarebbe rimasto per tutta la vita. Will non aveva saputo cosa aspettarsi dalla guerra, ma ciò che vi trovò fu peggio di qualsiasi cosa potesse immaginare. C’erano i Viet Cong in Vietnam, c’erano le bombe sulle strade in Vietnam, c’erano i corpi senza senza vita degli americani in Vietnam. E mentre i fratelli morivano nel Verde, quelli che avevano avuto la fortuna di rimanere a casa passavano il loro tempo a fumare sigarette e a sperare. James continuava la sua vita alla Colombia insieme a Leonard, Veronica, Philip e Lorraine. Lorraine era carina, ma James aveva parlato con lei soltanto una volta, in infermeria. Lei faceva la volontaria, lui si era rotto il braccio scivolando sul vialetto di fronte al dormitorio maschile. Era Leonard il responsabile di quella caduta e dopo l’incidente i due avevano evitato di parlarsi per tutta la settimana successiva. Leonard era ricco, dotato di una grande intelligenza e di un ego anche più grande ed era tanto arrogante da risultare fastidioso come pochi altri. Suo padre lavorava in una concessionaria di Chevrolet in Michigan, tornava a casa una volta al mese e non vedeva mai suo figlio. La guerra in Vietnam per lui era solo un paragrafo su una pagina di giornale. Leonard e James erano compagni di stanza. Leonard aveva una ragazza di nome Veronica, femminista convinta. I genitori della giovane erano originari di Parigi, aveva perso suo nonno nella Seconda Guerra Mondiale e parava il francese quasi meglio dell’inglese. Lei e James si vedevano a scuola, di tanto in tanto. Quando Veronica aspettava il suo ragazzo fuori dalla porta del dormitorio maschile James la salutava quasi sempre dalla finestra, poi avvertiva Leonard della sua presenza. Nella settimana seguente alla scivolata, però, smise di sorriderle. Era troppo arrabbiato con Leonard. James era proprio con lei – stavano tornando al campus a per raggiungere Leonard – quando incontrarono per la strada una ragazza con una bandana colorata sulla fronte. Era una hippie, e aveva uno strano simbolo a forma di albero rovesciato disegnato sulla guancia. Neanche lei era certa del significato di quel simbolo – a quel tempo era conosciuto soltanto da pochi – ma era bello e con la bandana colorata stava piuttosto bene. Era seduta per terra e James pensò che fosse una senzatetto, con un manifesto di cartone davanti al petto: “Fate l’amore, non fate la guerra”. James si chiese se lo slogan fosse di sua invenzione o se l’avesse preso da uno di quei movimenti che protestavano contro la guerra. Le si fermò davanti e le tese una banconota da dieci dollari.
«Che stai facendo?» gli chiese lei. «Non chiedi soldi per mangiare?» «Nossignore, io sto protestando. Tu che ne dici, pro oppure contro?» «Pro o contro cosa?» «La guerra in Vietnam, ovviamente!» rispose lei in un tono a metà tra lo scocciato e lo stupito. Probabilmente il compagno di stanza di James avrebbe risposto con un secco “Dobbiamo farla pagare a quegli imbecilli dei soldati vietnamiti”. James invece disse: «Mio fratello ci muore, laggiù. Sarei felice se invece di stare là, fosse a casa dai miei. Preferirei che la mia ragazza mi tradisse con lui piuttosto che saperlo a combattere laggiù. Almeno non rischierebbe la vita» «Ben detto, carino. Ben detto!» Mentre James si allontanava, la ragazza hippie urlò il suo slogan: «Fate l’amore, non fate la guerra!»
Gerald Holtom e il simbolo a forma di zampa di passero divennero parte della vita di James a partire da quel momento, e mai il ragazzo sarebbe riuscito a togliersi dalla mente l’immagine della hippie seduta a terra. La seconda volta che il simbolo della pace fece capolino davanti agli occhi di James fu al campus. Philip ce l’aveva disegnato a pennarello sul retro del giubbotto. Non era un ragazzo con molti amici, anzi, si teneva alla larga praticamente da chiunque ma, ogni tanto, lo si vedeva in compagnia di una ragazza dai capelli rossi, anche se solo per pochi minuti al giorno. La ragazza si chiamava Diana e amava scrivere poesie, che leggeva a Philip ogni volta che si vedevano. Diana era un’amica di Lorraine, la volontaria dell’infermeria. Passò solo qualche mese prima che anche sulle maglie di Diana comparisse la zampa di passero e mentre lo slogan “fate l’amore, non fate la guerra” si leggeva sui giornali sempre più spesso, James e Lorraine erano diventati piuttosto amici. Lei voleva diventare una cantante, era appassionata degli A Hard Day’s Night – tanto da avere i muri tappezzi di loro foto – ma suo padre era un medico e lei avrebbe dovuto diventare come suo padre. Non le piacevano i movimenti di protesta, sua sorella maggiore aveva mollato tutto per dedicarsi unicamente a quelli. Lorraine aveva deciso che non avrebbe fatto la stessa fine. Quando James vide il simbolo disegnato anche sulla porta del dormitorio maschile decise di andare a parlare con Philp. Non lo trovò, ma trovò il suo compagno di stanza.
«Dov’è Phil?» gli chiese. «Non ne ho idea, amico. Posso fare io qualcosa per te?». Oliver era un bel ragazzo, molto più alto della media e con i capelli neri lunghi fino alle spalle.
«Cos’è il simbolo che Philip si porta sempre dietro? Quello che sembra un albero rovesciato o una zampa d’uccello»
«Phil dice che è il simbolo della pace. L’ha disegnato Gerald Holtom, un artista inglese di qualche anno fa. Si è ispirato all’alfabeto semaforico per disegnarlo, rappresenta le lettere N e D, “Nuclear Disarmament”, ma questo è tutto ciò che so, se vuoi qualche informazione in più in dovresti chiedere a Phil». «Lo farò, grazie» James fece per andarsene, ma all’ultimo si girò e domandò a Oliver: «E tu che ne pensi del Vietnam?». Il compagno di stanza di Philip lo guardò negli occhi. «Penso che sarebbe meglio smetterla. È uno spreco fare la guerra. Per che cosa, poi?». Lui e James si parlarono soltanto un’altra volta dopo quel pomeriggio d’inverno, ma fu una conversazione piuttosto veloce e priva di significato, entrambi se ne dimenticarono piuttosto in fretta. Fu però proprio Oliver che, con le parole del loro primo incontro, convinse James a disegnare il simbolo della pace sulla giacca. Il ragazzo si procurò un pennarello nero e tracciò la zampa di passero sul retro del giubbotto.
Era il 1964 e l’esercito del Vietnam del Nord infiltrava truppe sempre più numerose nel Vietnam del Sud. «Non pensi che dovremmo fare qualcosa?» chiese una volta James a Lorraine. «Che cosa vorresti fare?» «Hai sentito parlare delle proteste contro la guerra? Penso che dovremmo partecipare anche noi». «Non dire idiozie, James. Un mio amico è stato arrestato durante una di queste proteste. Io non voglio fare la stessa fine e presumo che non lo voglia neanche tu». «Non voglio essere arrestato ovviamente… Però vorrei che la guerra finisse!». Lorraine non poteva capire cosa significasse non sapere se il proprio fratello era vivo o morto. Diana neanche, ma lei riusciva almeno ad immaginarlo, per questo il giorno successivo tornò a scuola con un livido sullo zigomo. Confessò di essere andata ad una manifestazione e di essere stata colpita in faccia. Lei e altri undici ragazzi – tra cui anche Philip e, sorprendentemente, Veronica – avevano sostenuto gli striscioni in strada per protestare contro il Vietnam.
«Dovresti venire anche tu alla prossima» disse Diana a James, sorridendogli. Quel mattino James non seppe fino all’ultimo se ci sarebbe andato. Aspettò, si mangiò le unghie, guardò impaziente fuori dalla finestra. Sapeva cosa Lorraine pensava di quei movimenti, sapeva che Leonard gli avrebbe dato del pazzo, se fosse andato con Philip e Diana; il rapporto con il suo compagno di stanza non sarebbe mai più stato lo stesso. Nemmeno la sua anima sarebbe più stata la stessa, ma forse Will era ancora vivo, là, da qualche parte nel Verde. Forse sarebbe anche tornato a casa, se la guerra fosse finita. E magari la sua ragazza l’avrebbe tradito con Will – aveva sempre avuto un debole per lui – ma almeno James avrebbe saputo che suo fratello era ancora vivo. Il giovane solitario, la ragazza dai capelli rossi e la fidanzata di Leonard gli fecero segno dalla finestra: stavano per partire, i loro volti dicevano “Aiutaci anche tu a fermare la guerra in Vietnam!”. James si voltò. Il pennarello nero era sul letto, insieme ad un manifesto ancora da scrivere. Iniziò a tracciare le lettere in stampatello maiuscolo. Ormai aveva deciso.
“Fate l’amore, non fate la guerra”.
Afferrò la giacca e se la infilò. Il simbolo della pace si era un po’ sbiadito sulla schiena, ma ancora si potevano vedere il cerchio un po’ storto e le righe asimmetriche. Avrebbe rischiato per Will, in fondo si trattava solo di una manifestazione, la polizia forse l’avrebbe arrestato, si sarebbe preso qualche pugno, ma nel Verde gli americani morivano. Qualche pugno non era gran cosa in confronto. Era il 1964, la guerra era iniziata da otto anni e nessuno aveva ancora fatto niente per provare a fermarla. Da quell’anno anno in poi, però, le cose sarebbero cambiate.
Isabella Scotti