Che lo si voglia ammettere o meno, più passano i giorni, più sembra di essere tornati a marzo. Con la differenza che questa volta sappiamo perfettamente cosa ci aspetta. Le scuole sono chiuse, ma accessibili per attività straordinarie; è permessa l’attività motoria, ma solo nei pressi del proprio domicilio; non è vietato invitare persone non conviventi a casa, ma è fortemente sconsigliato. Insomma, tutto ha un ma e ogni decreto ne aggiunge di nuovi. A marzo la confusione era tanta, le informazioni poche e confuse, inizialmente non si era nemmeno capita l’importanza della mascherina. Adesso perlomeno le linee guida basilari sono state chiarite. O forse no: tutti d’accordo sul lavaggio frequente delle mani e l’uso obbligatorio della mascherina, da qualche giorno però si parla anche dell’importanza della protezione degli occhi, secondo alcuni fondamentale sebbene sottovalutata fino ad ora.
È evidente che uno dei fattori comuni ai due periodi sia lo stato di incertezza profondo, da cui non sembriamo in grado di fuggire. Eppure l’aspettativa era di giungere a questo momento più pronti di prima. Invece – tralasciando il tema della disorganizzazione delle istituzioni (inutile stabilire chi abbia sbagliato, è necessario trovare soluzioni ai problemi, non un capro espiatorio) – pare che nessuno si sia preparato nella maniera dovuta. Sia sul piano professionale, sia su quello personale. La maggior parte delle persone in fondo era consapevole che una seconda ondata sarebbe stata inevitabile e nonostante ciò si è appoggiata alla speranza che quest’incubo non prendesse forma. Chi non si è goduto la libertà riconquistata l’estate scorsa?
A rendere l’estate tanto amata – oltre al più o meno piacevole caldo, a seconda dei punti di vista – è la leggerezza con cui la si vive, la libertà che regala, quest’anno più attesa che mai. Dopo mesi di reclusione è stato semplice abbandonarsi alla speranza di un’estate infinita, con molte uscite e solo qualche mascherina. Il divario fra le aspettative concrete e le speranze sulla realtà che viviamo oggi era talmente ampio da costringerci a scegliere fra le due: abbiamo ceduto al fascino della speranza. Abbiamo lasciato che ci accecasse e consumasse al punto che adesso non ce n’è più. Sta accadendo il peggio che potevamo immaginare e, come se non bastasse, non è la prima volta.
I nostri cervelli sono programmati per cercare modelli, schemi, ripetizioni. Anche quando non ce ne sono e anche se non si ha il controllo su ciò che accade intorno a noi. Rivivere le condizioni sperimentate la scorsa primavera contribuisce a rafforzare l’idea di trovarci in una nuova realtà da accettare al più presto, destinata a ripetersi ciclicamente. In fondo però, siamo fortunati: cent’anni fa, non solo la medicina era ampiamente indietro rispetto ad oggi, ma il nemico, oltre ad essere invisibile, era incomprensibile per la maggior parte delle persone. Altro che negazionisti, all’epoca dell’epidemia spagnola a San Francisco nacque una vera e propria “Lega anti-mascherine”. Ma la differenza più importante è la tecnologia. Se avessimo dovuto affrontare il coronavirus solo dieci anni fa, lo smart working sarebbe stato decisamente più complicato. Per non parlare della didattica a distanza. I più anziani raccontano ancora di quando, durante la seconda guerra mondiale, chi riusciva a permettersi i libri scolastici veniva considerato fortunatissimo: erano l’unica risorsa che permetteva di provare a sostituire gli insegnanti. Ecco, quella risorsa irrinunciabile per noi è diventata la tecnologia. Non dimentichiamo però che anche la tecnologia ha i suoi limiti, primo tra tutti il fatto di esserne circondati, senza saperla usare davvero. Soprattutto per i giovani, tecnologia vuol dire social network. Vuol dire quindi essere convinti di conoscere le vite degli altri attraverso i loro post, le loro storie. Vuol dire individuare sconosciuti come modelli da seguire; usare i contenuti di coetanei come misura di se stessi, senza sapere in fondo nulla di una vita di cui non viene mostrata che una parte minuscola, tendenzialmente positiva ma insignificante. Sì, perché del resto, chi aprirebbe Instagram per comunicare al mondo che il proprio capo è un idiota? Che ha litigato con quell’egoista dell’amico? Che ha trattato male la sorella e non sa come scusarsi? Che la mattina si sveglia e non ha voglia di iniziare la giornata? Questo, ultimamente, capita sempre più spesso: ci si sveglia e non si vuole iniziare la giornata. Tutti sentono la fatica, ma sembra che nessuno ne voglia parlare, nemmeno nella realtà, figurarsi su Instagram. È un malessere comune che ci ostiniamo ad ignorare. Eppure prima riusciremo a guardarlo dritto in faccia, meglio sarà.
Va tutto male. Andrà tutto male. Per un po’. Non per sempre, ma per un po’.
Virginia Giaquinta