Le proteste delle donne polacche per la difesa del diritto all’aborto.
In queste ultime settimane decine di migliaia di donne sono scese nelle piazze e nelle strade polacche per manifestare contro le ulteriori restrizioni prese dalla Corte costituzionale riguardo l’interruzione volontaria di gravidanza. La Costituzione polacca è da anni considerata la più anti-abortiva d’Europa, in quanto prevede la facoltà di abortire solo per chi ha subito violenza sessuale o se il feto presenta delle malformazioni. Il 22 ottobre la Corte ha definito anticostituzionale questa seconda opzione e dunque, se la sentenza entrasse in vigore, le donne potrebbero interrompere legalmente una gravidanza solo in caso di stupro o minaccia alla loro salute.
Questa proposta non è nuova in Polonia: basta andare indietro anche solo di quattro anni, quando il 26/10/2016 un articolo de La Repubblica titolava “Polonia, vince la protesta delle donne. Marcia indietro sulla legge anti-aborto”. Allora le proteste avevano spinto il Parlamento a rifiutare la richiesta di una legge che vietasse l’interruzione di gravidanza avanzata dal PiS (Prawo i Sprawiedliwość, Diritto e Giustizia), il partito politico conservatore al governo, che in questi ultimi mesi ha nuovamente ripreso quel progetto, sperando che la notizia passasse sotto silenzio grazie alla valanga di informazioni sul coronavirus che occupano i quotidiani polacchi e non solo. Ma il giorno stesso in cui la Corte costituzionale si è pronunciata, le manifestanti hanno iniziato a marciare per le strade, sfidando l’allarme covid e portando le proteste anche nelle chiese: la proposta del PiS è infatti fortemente sostenuta anche dalla Chiesa cattolica polacca.
Il provvedimento giurisdizionale costringe le donne a portare a termine gravidanze non vitali e restringe ancora di più una delle libertà della donna, il diritto all’aborto. Ad oggi sono poco più di mille quelli che avvengono legalmente ogni anno in Polonia e la stragrande maggioranza (il 98% secondo alcune fonti) viene eseguita a causa di feti malformati, quindi di fatto la sentenza rende l’aborto un reato. E chi si vede negata questa libertà trova soluzioni quali aborti clandestini o all’estero, ora più complicati visto il passaggio in semi-lockdown di sabato 31 ottobre e il conseguente lockdown nazionale. Inoltre, come spiega Michał Wawrykiewicz, avvocato polacco membro dell’associazione Wolne Sądy (Gratuito Patrocinio, un’iniziativa che lotta per lo Stato di diritto), la decisione rischia di scatenare un caos legale perché molti giudici la ritengono moralmente ingiusta e va sottolineato che, qualora un medico venisse citato in giudizio per l’esecuzione di aborti di feti danneggiati, il processo si svolgerebbe in tribunali di grado inferiore dove i giudici hanno un elevato livello di indipendenza.
Quali potrebbero essere le motivazioni che hanno portato a questa restrizione? I legislatori del PiS hanno ufficialmente dichiarato di voler garantire che i feti con la sindrome di Down possano nascere. Più in generale, gli antiabortisti ritengono che uccidere un feto significhi commettere un omicidio, quindi compiere un’azione completamente inaccettabile dal punto di vista etico. Per spiegare come mai proprio in Polonia si sia giunti ad una situazione di questo tipo, piuttosto che in una qualsiasi altra nazione europea, tra le ipotesi bisogna considerare che si tratta di un Paese più conservatore rispetto a gran parte degli altri stati europei e in cui il Cattolicesimo Romano è profondamente radicato nell’identità nazionale. La Chiesa, a lungo repressa dal precedente regime comunista, ha cercato un divieto totale, in linea con la propria visione, secondo la quale l’intera esistenza vada protetta fin dal momento del concepimento. E il partito Legge e Giustizia vuole ottenere il supporto della Chiesa; non a caso, il Presidente Duda ha condannato pubblicamente i manifestanti con le seguenti parole: “Sono criminali. Se parliamo di invadere le chiese, di insultare i sentimenti religiosi e di profanare i luoghi di culto, mi spiace, ma qui i confini sono decisamente superati”. A questo proposito Karolina Wigura, sociologa, storica e giornalista, e Jarosław Kuisz, storico e professore di Diritto all’Università di Varsavia, scrivono per The Guardian: “So why is Kaczyński, in the middle of a global pandemic, lining up with a minority of reactionary anti-abortion activists allied to the Catholic church to declare war on women’s rights? Partly, this is another line of attack on the post-cold war liberal democratic order he holds in such contempt. More pragmatically it is a move by a leader on the back foot as he fights one losing battle against Covid-19 and another to keep a fragile governing coalition from falling apart. Using the constitutional court is a trick to dodge a repeat of 2016 and any potential pushback by parliament”. L’analisi dei due studiosi polacchi evidenzia il tentativo di Kaczyński di mantenere al potere un partito che sta perdendo sostenitori per varie ragioni, tra le quali la cattiva gestione della situazione covid.
Sempre riguardo alla motivazione etica, basandosi sul fatto che la scienza non abbia ancora chiarito quando il feto diventi effettivamente un essere cosciente, si trovano le posizioni di coloro che credono che questo non sia ancora considerabile un essere umano. E le manifestanti, per la maggior parte tra i 15 e i 40 anni, ritengono che, anche se uccidere il feto non è sicuramente una soluzione semplice da prendere, sarebbe anzi più grave far nascere un feto le cui malformazioni portano alla morte nel giro di poco tempo, perché significherebbe davvero uccidere un essere umano e in più aumenterebbe la sofferenza da parte della madre. Inoltre si vuole sottolineare che il potere decisionale spetta alla donna, la quale deve poter scegliere cosa fare del proprio corpo, come ribadisce con forza una delle frasi sui cartelloni delle dimostranti: “Io penso, io soffro, io decido”. Così come si può scegliere di usare metodi contraccettivi, si deve poter scegliere di abortire. Come riporta la giornalista polacca Agnieszka Pikulicka-Wilczewska in un articolo per la testata web Al Jazeera, il messaggio principale da far arrivare a chi è al potere è, in modo semplice e diretto: “F*** you!”.
Dunja Mijatović, politica e attivista bosniaca dal 2018 commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, scrive su Twitter che è stato un “giorno triste per i diritti delle donne”. E ancora: “Rimuovere la base per quasi tutti gli aborti legali in Polonia equivale a un divieto e viola i diritti umani”. Klementyna Suchanow, uno dei principali organizzatori dell’iniziativa Women’s Strike, ha dichiarato che quanto sta accadendo in Polonia va inteso come un tassello di una lotta combattuta a livello globale, in cui le liberal-democrazie si trovano ad affrontare la sfida delle forze fondamentaliste e autoritarie.
Anche qui, nel contesto italiano, e nello specifico quello piemontese, non siamo esenti da questo tipo di confronto. Proprio in Piemonte questo tema è stato posto al centro della discussione nelle ultime settimane, a causa della recente circolare emessa dalla regione Piemonte sull’aborto farmacologico. La pillola abortiva (RU-486) è una preparazione farmacologica capace di indurre l’aborto chimico entro i primi 49 giorni di gravidanza. Cirio, il Presidente della Regione Piemonte, con una circolare obbliga le donne che scelgono questo tipo di interruzione a sottoporsi al ricovero ospedaliero, costringendole a rimanere in ospedale anche per più giorni e scoraggiando di fatto molte di loro a praticare questo metodo, meno invasivo e più economico di quello chirurgico. Una decisione che è peraltro in contrapposizione con le nuove linee guida nazionali: il 13 agosto, infatti, il Ministro della Salute Roberto Speranza aveva deciso di consentire la pratica libera dell’aborto farmacologico anche negli ambulatori, estendendone il periodo per l’utilizzo fino a nove settimane. Inoltre, la pillola RU-486, come afferma l’OMS, è una pratica meno rischiosa e più efficace. Per protestare contro questa circolare della regione Piemonte, lo scorso 31 ottobre l’associazione Non Una di Meno Torino (NUDM) ha organizzato a Torino una mobilitazione in piazza Castello. Per l’occasione, il gruppo di studenti LaSt (Laboratorio Studentesco), di cui faccio parte, si è schierato al fianco dei manifestanti, portando il dibattito per i diritti delle donne anche tra i più giovani: “È importante ribadire che pretendiamo un aborto sicuro, libero e gratuito per tutte, per dire basta a chi vuole decidere sui nostri corpi!”. Tutti noi ci sentiamo chiamati a fare la nostra parte e a contribuire al dibattito in prima persona, tenendo viva la riflessione.
Jacopo Sulis