Another chance

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Immagine articolo Vaudetti, Another chanceUffa, non ho nulla da mettermi! Ammettiamolo, almeno noi ragazze. Quante volte ci è capitato di dire o di sentire queste parole? Mi merito un po’ di sano shopping per tirarmi su il morale. Altra frase ricorrente, ma non è del tutto colpa nostra, questo è certo. In quest’epoca, come in quelle precedenti, il genere umano è da sempre alla ricerca di soluzioni in grado di migliorare e semplificare la vita. Quella parte ricca di società in cui abbiamo la fortuna di vivere, per esempio, offre un’esistenza agiata e comoda, talmente comoda che gli oggetti che desideriamo o le persone con cui vogliamo trascorrere il nostro tempo sono a portata di click. Tuttavia non è oro tutto quel che luccica. Siamo negli anni della fast fashion, quelli in cui le pubblicità ci hanno inculcato che la quantità viene prima della qualità e quelli in cui solo ciò che è nuovo e di marca è sinonimo di bellezza. Non è esattamente così. Infatti per ogni pezzo del nostro guardaroba, prima di comprarlo, dovremmo farci una domanda: come è stato prodotto? 

I capi di abbigliamento non nascono belli e finiti, un po’ di sana attenzione nel fare le nostre scelte dovrebbe esserci, a partire dal modo in cui i nostri acquisti fanno girare l’economia. Non si possono chiudere gli occhi di fronte alle condizioni della manodopera nel settore tessile, soprattutto nei paesi in via di sviluppo: lo sfruttamento di migliaia di giovani donne è un dato di fatto e gli ambienti di lavoro in cui operano non sono sicuri in alcun modo. A chi interessa però dopotutto? Non siamo noi a trovarci in questa situazione, siamo lontani anni luce da questa realtà, forse è anche per questo che non molti la sentono “loro”. Argomenti di cui si parla tanto adesso sono il riscaldamento climatico e lo spreco d’acqua; temi attuali, certo, ma alla fine solo gli interessati s’informano su quanto la produzione di un capo di abbigliamento possa far male al nostro pianeta. 

Proviamo a rendere il tutto più concreto, chi è che non possiede un paio di jeans? E’ uno dei must have che tutti tendenzialmente troviamo nel nostro armadio. Secondo i dati dell’associazione Donne in Campo della Confederazione Agricoltori Italiani (Cia) , in media, un jeans per essere prodotto richiede circa diecimila litri d’acqua, un numero che sale se si usano fibre e i coloranti di sintesi. Non è un caso allora che l’industria tessile sia la seconda più inquinante del mondo, responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e del 10% delle emissioni di anidride carbonica. 

La domanda rimane. Perché acquistiamo oggetti che danneggiano noi e il nostro pianeta? La verità è che sovente si possiede troppo poco che davvero ci piace e ci fa stare bene. La ricerca della felicità ha smosso gli animi di molte persone e le ha spinte a fare delle scelte per migliorare la qualità della loro vita: il minimalismo è una di queste. Un percorso che viene intrapreso da molti, perché promette di raggiungere la felicità attraverso le piccole cose già possedute. Minimalismo, quindi non significa per forza avere poco ma il giusto, la quantità che permette di non desiderare il superfluo. Che venga scelta o meno questa strada, di certo liberarsi di vestiti che non valorizzano la nostra persona e non ci fanno stare bene è qualcosa che interessa tutti, ma bisogna ricordarsi che la noia di uno può essere la gioia di un altro. E’ però difficile separarsi da qualcosa. I vincoli che noi (o chi ci sta intorno) ci imponiamo hanno il loro peso: regali poco graditi di cui non si è fatto nulla negli ultimi anni, tutti i “non si sa mai, potrebbe servire”, i jeans di tre taglie in meno che si tiene per il “prima o poi riuscirò a rientrarci”, i capi di abbigliamento costosi che nonostante tutto non sono mai piaciuti. 

Vale davvero la pena tenere sempre tutto? Se la risposta è si, diventa inutile qualsiasi senso di colpa. Se la risposta è no, invece, ci vorrebbe un bel ducluttering, quella sana e antica abitudine di fare “pulizia”. Inizialmente potrebbe sembrare difficile ma per farlo tutto quello che è necessario è armarsi di buona volontà, di qualche busta capiente e sopratutto organizzarsi in anticipo: come si è speso tempo a riempire il proprio armadio altrettanto se ne investe per svuotarlo da ciò che non serve. A riordino effettuato, arriva poi la parte più divertente: cosa fare dei propri abiti ormai in pensione? Si possono regalare ad amici e parenti; darli in beneficenza; provare a venderli nei mercatini dell’usato o su piattaforme digitali, come Vinted ad esempio. Un’idea simpatica sarebbe quella di uno swap party, ma considerato il periodo sarebbe meglio rimandarla a data a destinarsi. 

E poi? Bisognerebbe fare il possibile per non incappare nuovamente nelle vecchie tentazioni e iniziare a farsi qualche domanda ogni volta che il desiderio di qualcosa di nuovo ci assale. Ne ho davvero bisogno?  Sicura che lo userò? Riuscirò ad indossarlo insieme a quello che ho già? Mi piacerà anche fra qualche tempo? Partendo da piccoli accorgimenti, magari, un po’ alla volta riusciremo a fare davvero la differenza e a vivere in un mondo un po’ più green. 

Elena Vaudetti

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