Da Flaubert a Richardson, da Naruto a Le regole del delitto perfetto, da Fedez a Le Iene… tutti ci sono passati, tutti, prima o poi, hanno avuto a che fare con il “Grande Inquisitore”: la censura. Platone la considerava un elemento necessario della sovranità; Socrate, accusato di empietà e di corruzione dei giovani, difendeva la libertà di parola. La Francia la aboliva con la Rivoluzione e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino riconosceva al popolo la libertà di stampa; Austria, Prussia e Russia, in risposta, intensificavano e perfezionavano i propri mezzi di repressione. Nel XX secolo, da una parte del mondo veniva approvato il Freedom of Information Act (che permette ai cittadini di chiedere chiarimenti su qualsiasi attività governativa); dall’altra il regime di Stalin tentava di cancellare dalla storia l’Holodomor e i suoi quattro milioni di vittime.
La censura è come una lama affilata nelle mani di un soldato esperto: potente per chi la usa, terribile per chi la subisce. E tuttavia, come una spada, ha le sue ragioni di esistere. Essa non è sempre repressione, né solo limitazione, non è necessariamente una punizione, tanto meno è sempre così spietata come può sembrare. C’è censura e censura: oltre a quella utilizzata “a posteriori”, ci sono anche forme di censura “preventiva”. L’arte, per esempio, l’ha sperimentata a lungo. Per secoli infatti essa è stata governata da “strutture di senso” (cioè tutta la serie di elementi che contribuiscono a formare un’epoca: le concezioni, le credenze, le conoscenze che rendono legittimi certi discorsi o certe pratiche in un determinato periodo storico) agenti “a priori” sulla produzione delle opere. In Occidente, le due principali “strutture di senso” attive più o meno fino al XIX secolo – anche se di una delle due sentiamo ancora gli strascichi oggi – sono la “divisione degli stili” e il “platonismo estetico”. La prima implica la regola infrangibile per cui ad ogni argomento corrispondono uno stile ed un significato: gli eroi nobili sono più importanti, sono quelli che devono essere rappresentati in modo serio e con una forma ben definita, lo stile alto o sublime. Il “platonismo estetico” invece fa riferimento alla concezione secondo cui la poesia ha senso solo se trasmette significati ed essa trasmette significati solo se contiene o allegorizza idee. Richardson è uno dei primi ad infrangere questo sistema, infatti la sua Pamela (1740) è a lungo e pesantemente criticata, eppure l’emancipazione dalle “strutture di senso” non è mai completa: l’eroina del suo romanzo deve sempre giustificarsi, scusarsi, agire nel modo più nobile. Dunque questi “limiti” vengono imposti “a priori”: non si tratta di un tipo di controllo dipendente dalla singola entità nazionale o applicato in contesti particolari e specifici, bensì di un sistema che permea ogni angolo di pensiero occidentale, di una normalità condivisa da tutti, persino dagli artisti stessi. Le opere nascono già censurate, perché i loro autori non mettono in dubbio le “strutture di senso” che pongono loro dei limiti. Anche il povero vecchio Flaubert, che vive più di un secolo dopo Richardson, ne prova gli effetti sulla sua pelle: egli viene accusato di immoralità e processato per il suo romanzo Madame Bovary (1856).
Il realismo non è materia per tutti. L’arte infatti si è sviluppata su due livelli: ce n’è una per le masse, più restia all’apertura nei confronti del realismo; e una per le élite, che aspira alla rappresentazione disincantata della vita così com’è, in tutte le sue contingenze ed imperfezioni. L’arte di massa è sottoposta a controlli molto maggiori rispetto a quella elitaria. Per averne la dimostrazione non serve andare tanto lontano. Prendiamo un comune film poliziesco hollywoodiano: i due buoni sono di solito un bianco e un nero (o un ispanico), e i due cattivi un bianco e un nero (o un ispanico). La situazione negli Stati Uniti è in realtà ben diversa; tuttavia una rappresentazione più in linea con le statistiche verrebbe inevitabilmente considerata razzista. Questo perché oggi la televisione ha preso in parte il ruolo che avevano in passato romanzi: è diventata un mezzo d’educazione. Nel XIX secolo Madame Bovary veniva criticato perché non bisognava mostrare ai giovani l’adulterio impunito; oggi in Naruto le scene di combattimento, di morte e di dolore sono censurate perché la violenza è diseducativa. La censura è protezione, la censura è necessaria.
Eppure in alcuni casi gli enti controllori ne hanno abusato, in favore di visioni antiche e bigotte: Italia 1 con Le regole del delitto perfetto (ma non solo), o Rai 2 con I segreti di Brokeback Mountain – in seguito a cui sono scaturite polemiche sia a livello internazionale che da parte del web (dopo la vicenda, ad esempio, su Twitter è imperversato lo slogan #RaiOmofoba). Il motivo della censura? Presenza di scene, baci e abbracci omosessuali.
La televisione, poi, è un mezzo di comunicazione profondamente politico e dunque uno dei primi su cui il controllo interviene. Ce l’ha fatto capire il discorso del 1 maggio di Fedez, andato in onda su Rai 3. Si tratta però di uno solo dei tanti casi in cui succede: non è stata la prima né sarà l’ultima volta. Per esempio, un altro intervento più incisivo è stato la cancellazione di un episodio de Le Iene, che avrebbe reso pubblico un test antidroga all’interno del Parlamento Italiano. Nei paesi democratici è sempre una questione di compromesso. Quando il compromesso viene meno, quando la censura eccede la libertà di parola e di azione, capita ciò che è successo con lo stalinismo, con il nazismo e che ancora oggi accade in alcuni paesi del mondo: il controllo sistematico dei mass media, delle arti e di tutte le forme di espressione pubblica diventa all’ordine del giorno. Così si possono controllare le opinioni, condizionare le scelte, persino cancellare gli eventi dalla storia.
Ovviamente, la situazione che noi oggi viviamo non è in alcun modo paragonabile a quella del periodo fascista, perché tra un tipo di censura e l’altro il passo è immensamente lungo. Eppure, la direzione sembra essere univoca: la verità risulta sfuggente, perché essa – nonostante sia il fondamento del nostro sistema giuridico – non è sempre la priorità.
Isabella Scotti