Sovente capita di chiederci come stiamo realmente, cosa stiamo facendo, perché, e se ci rende felici. La domanda che ci viene fatta ormai spontaneamente per iniziare una conversazione non a caso è “Ciao, come stai?”, la stessa che ci viene insegnata a scuola quando impariamo una nuova lingua.
Se non si ha un legame stretto con una persona non è facile rispondere con sincerità. Non sempre riusciamo a rispondere con totale sincerità, perché la stessa domanda non è sempre posta con reale interesse ma più per abitudine. Chi lo chiede lo fa per gentilezza ma non per forza perché pronto a sapere come realmente siamo; chi risponde facilmente taglia corto con un “tutto bene” per non prolungare la conversazione o per non esporsi troppo.
In effetti, le uniche persone con cui riusciamo ad aprirci sono quelle che conosciamo da più tempo o con le quali abbiamo più confidenza, e questo è del tutto normale, ma anche con loro qualche dubbio sul fine della domanda rimane. Un motivo per il quale tendiamo a dire che va sempre tutto bene è che, se dicessimo sul serio quello che ci passa per la testa, dovremmo essere capaci di gestire poi le nostre emozioni e la nostra situazione di fronte agli altri.
In fondo, il nascondersi dietro a un “tutto bene” non fa altro che farci ammalare, perché la salute non è solo quella fisica ma anche mentale, come ci ricorda l’OMS, una “parte integrante […] del benessere”.
Di fronte alla salute mentale si tende a non soffermarsi poi troppo, perché fa molta paura, ma fortunatamente il tema è molto conosciuto ai giorni nostri, perché non solo a scuola e nel mondo del lavoro, ma anche in tv e sui social si affronta a viso sempre più aperto.
Proprio in onore della giornata mondiale della salute mentale, alcune classi del Liceo Umberto I, accompagnate dai propri educatori e insegnanti, si sono recate al cinema Massimo di Torino per la visione del film “5 giorni fuori”, titolo adattato dall’inglese “It’s kind of a funny story”. La storia è tratta da un romanzo di Ned Vizzini e narra di un normale adolescente con manie suicide, che è aiutato dal reparto psichiatrico dell’ospedale nel quale si reca di sua spontanea volontà. In questo luogo, poiché condiviso con diversi adulti, incontra personaggi che gli cambieranno il modo di vedere e affrontare le sfide della vita. La storia viene narrata in modo diverso rispetto a come siamo abituati a vederla: quello che domina è l’ironia. Una prospettiva decisamente apprezzabile: è ricercata, originale e adatta ad adolescenti che spesso evitano romanzi o film riguardanti un tema così forte, proprio perché troppo drammatici.
Dopo il film i ragazzi in sala hanno avuto l’occasione di avere una discussione diretta con gli specialisti presenti alla proiezione: psicologi, psicoterapeuti, insegnanti, ma anche semplici mamme che hanno provato il dolore di perdere un figlio o vederlo ricoverato. L’esperienza ha avuto un riscontro positivo ed è stato sicuramente un modo diverso di parlare a giovani adulti di un argomento così rilevante.
Solitamente, dopo aver partecipato a questo genere di attività, viene naturale pensare a cosa si potrebbe fare nel concreto per aiutare le persone che soffrono di problemi psichici. Sicuramente uno dei primi consigli è la consultazione di un terapista, poiché specializzato nel trattamento di queste malattie. Ma anche una semplice chiacchierata con una persona su cui possiamo contare e siamo consapevoli che vuole solo il nostro bene potrebbe essere d’aiuto. Per questo la consapevolezza di chiedere “come stai?” o rispondere “tutto bene” non è cosa da poco, poiché dobbiamo essere disposti ad accettare e ascoltare qualsiasi risposta ci venga data, come dovremmo essere onesti, quando va male, a dirlo.
Matilde Chifan