25 febbraio, sera. Un velivolo Frontex avvista un barcone che viaggia a 6 nodi nello Ionio, in buone condizioni di galleggiabilità, con solo una persona visibile in coperta. La segnalazione viene inviata al punto di contatto nazionale e alla Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma e viene trattata come un caso di immigrazione illegale, non come di ricerca e soccorso. Ad intervenire è allora la Guardia di Finanza, non le motovedette classe 300 e 800 della Guardia Costiera, che sarebbero in grado di affrontare il mare in tempesta di quella sera. Su quella barca c’erano circa 200 persone e, secondo un lancio Ansa che riporta la posizione dell’agenzia Ue per il controllo delle frontiere, lo si poteva intuire dalla linea di galleggiamento. Un’inchiesta che sembra non voler apportare risultati chiari indaga sulla responsabilità del naufragio che il 26 febbraio ha coinvolto quello stesso barcone, non soccorso nonostante l’evidente necessità e le richieste effettuate da bordo. Responsabilità che rimbalza, respinta, dalle Fiamme Gialle alla Guardia costiera al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
La spiaggia di Steccato di Cutro continua a cospargersi da due settimane delle salme dei passeggeri di quel barcone, persone di entrambi i sessi e di ogni età. I pochi superstiti piangono le bare allineate nel PalaMilone di Crotone e si rifiutano di incontrare a Roma la nostra Presidente del Consiglio, che ha rinviato troppo a lungo una presa di parola a dir poco doverosa riguardo a quello che, chiunque siano i responsabili, non può non essere definito un omicidio colposo plurimo. Atteggiamento opposto quello degli abitanti locali che solo ieri, dopo giorni di aiuti dati con anima e corpo per accogliere i naufraghi e recuperare con il giusto rispetto le salme, hanno sfilato per le strade di Steccato di Cutro all’insegna dello slogan “Mai più stragi di migranti nel Mediterraneo!”.
Non dovrebbero essere necessarie queste righe per raccontare il massacro di Cutro. Tutti coloro che le leggono dovrebbero già conoscere molto bene i fatti e avere un’opinione in merito a cosa questi rappresentino in un clima nazionale e internazionale quale quello odierno. Tuttavia, se si riesce a fiutare che cosa sottintenda il fatto che pochissimi miei coetanei ne conoscano, almeno a grandi linee, gli svolgimenti e le implicazioni di responsabilità, è segno che le righe che seguono sono quanto mai necessarie. Vito Mancuso scrive su La Stampa che se noi Italiani non siamo neanche più brava gente, se perdiamo anche la generosità, l’accoglienza che ci contraddistingue, perdiamo il nostro essere umani. Non siamo noti per la puntualità né per l’ordine, scrive, ma ci scorre nelle vene il valore della pietas virgiliana propria degli antichi romani: l’empatia, la capacità che solo l’essere umano ha di immedesimarsi in un suo simile per condividerne il pathos, il dolore. Non è un concetto isolato, astruso. Terenzio sostiene che giacché è uomo, nulla di ciò che è umano gli è estraneo. Schopenhauer teorizza il mitleiden, la compassione, la condivisione del dolore. Nei Sepolcri, Foscolo inneggia alla fratellanza, mentre Leopardi dedica Il pensiero dominante all’affetto che unisce, sovrano, gli uomini.
D’altronde, la legge della xenìa nell’antica Grecia dettava di accogliere lo straniero: a che pro? Forse perché, un giorno, lo straniero potresti essere tu che oggi accogli. Chi può in completa onestà intellettuale negare che la nascita sia questione di fortuna? Chi nasce con il diritto di pretendere che il suo vivere una vita priva di grossi impedimenti sia legittimamente e nient’altro che sua?
Colui che non resta attonito, anche solo per un istante privo della voce dei suoi stessi pensieri, di fronte al dramma che l’orrore vissuto da un altro essere umano comporta per la sua universalità intrinseca, per il fatto che quell’essere umano che soffre, che muore, altro non è che un altro lui, costui ha perso il senso dell’umanità. Quale altra legge rispettare nella vita se non il tremore, il sussulto che dà l’immedesimazione in un coetaneo che, per caso, ha vissuto nello stesso spazio della nostra placida esistenza gli orrori che non potremmo riprodurre nemmeno nei nostri peggiori incubi? E come dormire, sapendo che i figli di una donna in tutto e per tutto uguale a me, ma solo nata in un posto diverso, saranno domani “spiaggiati” sulla costa del mio Paese, che ha rifiutato loro la salvezza?
Di fronte a un orrore tale, una riflessione si impone. E ai nostri occhi, nonostante l’inesperienza, appare difficile negare che colui che distoglie lo sguardo da immagini troppo forti per paura che lo trafiggano fino alle lacrime, colui che tace per paura che, tirato in ballo il discorso, un altro glielo svii o gli dica non si può parlare sempre di politica, sia indifferente quanto quest’ultimo. Entrambi non sanno accantonare il proprio esile ego di fronte ad un senso di umanità spaventosamente più grande di loro. Entrambi perpetuano un massacro silenzioso e non differiscono di molto da chi il massacro vero l’ha legalmente autorizzato.
Quanto ancora è necessario spingersi oltre perché la sempre più nera, sempre più disumana attualità politica italiana venga discussa nelle scuole? Quando, se non ora, il luogo di formazione ci fornirà i mezzi per sottostare ad un consiglio simile, che avrà la forza di darci a chiare lettere “non piegatevi a un ritorno al passato, è una disumanizzazione”? Chi crede che l’anima italiana sia prima di tutto un’anima umana che odia l’indifferenza dell’altro, questa disumanizzazione non la può né la vuole accettare.
Irene Scali