L’Operazione Husky, nome in codice per lo sbarco alleato in Sicilia del 1943, fu uno degli eventi più importanti della Seconda Guerra Mondiale e diede origine alla campagna di liberazione dell’Italia dal dominio nazifascista. La conquista della Sicilia, nella quale gli Alleati impiegarono più di 160 mila soldati, sarebbe infatti stato il primo passo per raggiungere Roma e far cadere il regime, con un conseguente indebolimento dell’asse con Berlino.
Nonostante la presenza di grandi contingenti nazifascisti sull’isola e la pressoché nulla conoscenza del territorio da parte degli Alleati, la conquista fu quasi immediata e il numero di vittime minimo. In che modo, dunque, le forze britannico-americane riuscirono a ottenere una così rapida e schiacciante vittoria in una situazione tutt’altro che semplice?
Per poter rispondere a questa domanda è necessario raccontare una lunga storia dai caratteri paradossali.
Il primo atto ha luogo nell’estate del 1924. Il rapporto tra fascisti e mafiosi si sta incrinando per via di un conflitto di interessi: Cosa Nostra, da una parte, vuole mantenere il suo potere autoritario sull’isola; Mussolini, dall’altra, non accetta le imposizioni e gli atteggiamenti di superiorità dei capimafia. Per porre fine alla contesa, il governo nomina come prefetto di Trapani il magistrato Cesare Mori, dandogli carta bianca per estirpare la mafia dall’isola. Soprannominato prefetto di ferro, Mori attua nei suoi 5 anni di mandato una politica estremamente dura e inflessibile nei confronti delle famiglie mafiose siciliane, attraverso violente azioni squadriste e arresti di massa. I boss mafiosi, ritrovandosi mutilati della propria autorità sulla Sicilia, si dividono: parte di essi si ritira in piccoli centri abitati montani, altri decidono di emigrare verso i più liberi Stati Uniti d’America, non senza una qual certa voglia di rivalsa nei confronti del regime di Mussolini.
Facciamo ora un passo avanti: ci troviamo nel porto di New York, anno 1942. Il transatlantico U.S.S. Normandie, da poco trasformato in una nave per il trasporto di truppe, affonda in seguito a un incendio appiccato a bordo. E’ solo l’ultimo di tanti casi, tra sabotaggi e attacchi tramite siluri u-boot, di navi americane affondate dall’azione nazista. L’Office of Naval Intelligence, servizio segreto antenato dell’attuale CIA, contatta il procuratore di Manhattan, Frank Hogan, con una richiesta quantomeno curiosa: la consegna dei fascicoli riguardanti i boss mafiosi detenuti negli Stati Uniti.
L’obiettivo più imminente è quello di mettere i gangster a guardia del porto di New York per evitare altri attentati, ma l’intenzione di fondo è una sola: trovare nella mafia un solido alleato nella lotta al nazifascismo. Hogan acconsente, ma mette in guardia l’ONI: sarà necessario contattare Charles “Lucky” Luciano, boss italo-americano tra i più influenti nell’ambiente malavitoso degli USA.
Luciano sarà con il passare del tempo sempre più protagonista della nostra storia e il suo personaggio merita un approfondimento.
Emigrato da Palermo, giunge a Ellis Island nel 1905 per poi stabilirsi a New York. Qui entra in contatto con il gangster ebreo Rothstein, per conto del quale gestisce il contrabbando di alcol e l’amministrazione di bordelli e bische clandestine. Nonostante la sua reputazione criminale cresca a dismisura, rifiuta la carica di “capo dei capi” della cupola americana per evitare un conflitto aperto con Al Capone. Al contrario, Luciano fonda un vero e proprio sindacato del crimine, stringendo alleanze con le più importanti famiglie malavitose statunitensi. Gli affari vanno a gonfie vele, e si impone sempre di più come sovrano della criminalità statunitense; poi, fulmine a ciel sereno, l’arresto. Nel 1936, infatti, viene processato e condannato alla reclusione nel carcere di Sing Sing. Il suo destino, tuttavia, cambia radicalmente nel momento in cui gli agenti dell’ONI decidono di fare di lui il loro più potente alleato.
L’accordo prende il via: nelle settimane successive all’incontro tra i piani alti dell’ONI e Luciano, quest’ultimo riceve in visita a Sing Sing, sotto gli occhi delle forze dell’ordine americane, l’élite dei boss mafiosi di origine italiana presenti negli Stati Uniti. La pianificazione vera e propria dello sbarco in Sicilia inizia nel gennaio del 1943, quando Joe Adonis, gangster vicino a Lucky Luciano, mette a disposizione dei cartografi statunitensi centinaia di immigrati siciliani residenti nello Stato di New York, che forniscono preziose informazioni sulla geografia e sui potenziali avamposti dell’isola.
Al contempo, l’agente dei servizi segreti Earl Brennan viene inviato dal governo americano a Roma, dove tramite Monsignor Giovanni Montini (futuro Papa Paolo VI) apprende informazioni sui più importanti boss della cupola siciliana. In particolare, Montini decreta che Calogero “Don Calò” Vizzini, capo famiglia con influenze sull’intera Sicilia occidentale e latitante ricercato dalla polizia fascista, sarebbe l’alleato perfetto per gli Stati Uniti.
Lo sbarco effettivo avviene nelle prime ore del 10 luglio 1943. Le truppe del generale Paul Alfieri, guidate dagli informatori di Lucky Luciano, si mettono in contatto con i boss dell’isola, e insieme a essi pianificano gli attacchi ai principali centri abitati siciliani, che avverranno già dal primo giorno di conquista. In poco più di un mese, la Sicilia è completamente liberata.
Quello che ci rimane di questo accordo, tuttavia, è una pagina poco rosea per la storia d’Italia. Dopo la conquista, infatti, i boss presentano il conto alla coalizione alleata, concentrata in quel momento sulla caduta del governo di Mussolini: la mafia vuole tornare padrona della Sicilia. E saranno gli stessi Alleati, con la priorità di lasciare l’isola in mano a una solida realtà antifascista, a consegnare le maggiori cariche pubbliche delle città siciliane ai mafiosi, ridando linfa vitale a una mafia quasi del tutto sconfitta.
Il nostro Lucky Luciano, dopo essere stato premiato dagli USA con la grazia, fa il suo ritorno in Italia e, insieme ai suoi fedelissimi, si stabilisce a Napoli. Qui la sua azione mafiosa affonda le radici nel terreno già preparato dal precedente boss Vito Genovese. Dal canto suo, instaura rapporti con Don Calò, creando così un’alleanza criminale in azione, tramite false coperture commerciali, su tutto il Sud Italia.
Alla morte di Luciano nel 1962, Vizzini si trova a essere il sovrano indiscusso della rinascente mafia italiana e fa sua la strategia della tensione. Quattro attentati al leader dei comunisti siciliani Girolamo Li Causi, sparatorie su lavoratori e famiglie durante la festa del Primo Maggio a Palermo, l’uccisione del sindacalista Placido Rizzotto: tutto ciò fa parte di una ben strutturata tattica per portare la Sicilia, così come l’Italia intera, a essere proprietà indiscussa della Democrazia Cristiana. Senz’altro, la riforma agraria promossa dal Partito Comunista, molto pericolosa per i latifondisti del meridione, è tra le motivazioni principali che spinsero la cupola mafiosa a muoversi di pari passo con i democristiani.
Un’ultima cosa non è da dimenticare, per i suoi risvolti quasi tragicomici: all’interno della Democrazia Cristiana di quel tempo militavano anche diversi membri dell’ex organizzazione politica fascista, gli ex-nemici di Vizzini e della mafia siciliana.
Non c’è da stupirsi: come abbiamo avuto modo di vedere più volte, in questa storia il fine ha sempre e comunque giustificato i sanguinari mezzi. Qualsiasi mossa in questa tesa partita a scacchi è sempre stata parte di una più grande, egocentrica valutazione di rischi e benefici. Un patto sporco, per mero tornaconto personale.
Sebastiano Scali