Una giornata diversa dalle altre

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Italia-rugby2-1Era una mattina come tante altre, mi alzai controvoglia e, spostando la coperta per liberarmi dalle sue grinfie, feci cadere un libro a terra. Scesi al piano di sotto e camminai fino al bagno strisciando con le ciabatte sul pavimento in legno.

Aprii il rubinetto sperando che l’acqua si scaldasse in fretta e nel frattempo mi tolsi il pigiama. Con lui se ne andò anche il calore trattenuto fino a quel momento. Toccai l’acqua con un dito e la prima falange si congelò, allora respirai riempiendo i polmoni d’aria un paio di volte, cercando di farmi coraggio. Ma l’acqua ghiacciata ebbe il sopravvento e io rinunciai definitivamente a lavarmi: d’altronde non mi potevo opporre a un elemento della natura che esiste da sempre.

Una volta che ebbi fatto colazione mi vestii e, munita di carrello della spesa, mi diressi verso il mercato.

Mi sentivo così ridicola a camminare avvolta nella giacca di mio padre, l’unica che avevo trovato quella mattina sull’appendiabiti, trascinandomi dietro il carrellino della spesa. Ma, d’altro canto, non potevo fare diversamente, se non volevo arrivare al mercato quando il banco della verdura era già stato svuotato dalle vecchine mattiniere, che non avevano altro da fare che prendersi a gomitate per questa o quella carota, o per il cavolo più grosso. Così, a malincuore, mi unii anche io alla calca di anziani che accerchiava la bancarella.

Dopo circa un’oretta tornai a casa con il bottino e sistemai frutta e verdura nel frigo. Dopo aver fatto i compiti, decisi che le undici e trenta erano il momento perfetto per svegliare i miei famigliari.

Per primo toccò a mio fratello. Mi intrufolai con passo quasi felpato nella sua stanza e gli saltai addosso spettinandogli i capelli con le dita: lui, tra un gemito , un lamento e un grugnito, aprì gli occhi.

Quindi fu la volta dei miei genitori, ma sapevo che farli alzare sarebbe stato più facile se l’odore del caffè gli avesse stuzzicato l’olfatto. Scesi dunque in cucina e lo preparai, poi apparecchiai la tavola e preparai le uova e il pane tostato.

Una  volta che fummo tutti seduti attorno al tavolo cominciammo a mangiare: mio fratello si avventò sul pane ingurgitando pezzi di mollica dopo averli inzuppati nel latte. La scena era un po’ disgustosa, quindi preferii concentrare la mia attenzione da un’altra parte.

Mentre masticavo le uova pensai alla partita che avrei dovuto fare quel pomeriggio, se non fossi stata infortunata a un ginocchio, e che quindi sarei andata solo a guardare. Ero comunque contenta di poter assistere alla partita delle mie compagne, soprattutto perché, se l’avessimo vinta, saremmo state ammesse al girone successivo. Mi piaceva pensare di essere ancora una squadra, anche se era dalla primavera  precedente che non entravo in campo o non mi allenavo. Mi ero rotta un legamento in una partita che avevamo giocato in Emilia Romagna: una avversaria mi aveva placcata e nella caduta mi ero storta il ginocchio, che si era rotto. Ma almeno avevamo vinto!

Dopo pranzo mi misi le scarpe e salii in macchina insieme a mia mamma. Il viaggio per me durò tantissimo, anche se non avrei preso parte al match sentivo l’adrenalina scorrermi nelle vene e non riuscivo a stare ferma sul sedile.

Una volta arrivata al campo scesi dalla macchina e mi diressi verso gli spogliatoi. Quando aprii  la porta della stanza un boato di saluti mi investì e le mie compagne di squadra mi volarono tra le braccia, io le salutai una per volta e le incitai dando pacche amichevoli sulle spalle di ognuna.

Dopo essersi messe le divise entrarono in campo per riscaldarsi e io le seguii e andai a salutare il mio allenatore.

Dopo una mezz’oretta il fischio dell’arbitro squarciò il cielo e la palla venne calciata dalla squadra avversaria e volteggiò in aria, per poi essere afferrata al volo da una mia compagna, che si buttò senza esitare verso la linea difensiva formata dalle avversarie. Venne fermata con un placcaggio, ma la palla era ancora nostra e il numero nove passò la palla a un’altra. La ragazza che ora aveva la palla si chiamava Alice e stava avanzando a tutta velocità verso la linea di meta, nonostante avesse una avversaria che, attaccata saldamente alla sua caviglia, cercava di trattenerla. 

Alice mi aveva sostituita come capitano quando mi ero fatta male, ma prima era il mio vice. Era una ragazza con una corporatura molto robusta, non era veloce e si stancava spesso, ma se bisognava passare oltre la difesa Alice svolgeva la funzione di apripista: se avessi dovuto paragonarla a un oggetto sarebbe stata una trivella che perforava le linee avversarie come se fossero un foglio di carta. 

Nel frattempo la partita era ripresa e, dopo la meta di Alice ne era seguita un’altra di Miriam, ma poi gli avversari avevano rimontato e ora eravamo in pareggio.

Una ragazza della squadra avversaria prese la palla, liberandosi facilmente dal placcaggio poco efficace di Maria e schiacciando la palla sulla nostra linea di meta. Un boato di acclamazioni si levò dalla tifoseria avversaria mentre Maria si prendeva la testa tra le mani e Letizia imprecava.

Leti era un ragazza molto esile e sembrava dovesse spezzarsi ogni passo, ma, a dispetto dalle apparenze, era molto resistente e veloce e non aveva paura di essere placcata da ragazze più alte di lei o palesemente più forti. Un suo difetto era però che voleva fare tutto di testa sua e passava a malincuore la palla alle sue compagne.

Dopo quaranta minuti l’arbitro fischiò la fine del primo tempo e la mia squadra si riunì in cerchio a bordo campo, io li raggiunsi e insieme all’allenatore facemmo il punto della situazione cercando di capire quali fossero stati gli aspetti positivi e negativi del primo tempo. 

Dopo un quarto d’ora ricominciò la partita e, tra un placcaggio e un passaggio, la mia squadra riuscì ad avanzare fino alla linea dei cinque metri dalla meta e, dopo pochi secondi, Irene schiacciava la palla oltre la linea bianca e la polvere le colorava la divisa e le ciocche di capelli marroni. 

Alla fine della partita avevamo totalizzato quattro mete e due infortunate ma comunque, dato che eravamo in pareggio, bisognava calciare la palla attraverso i pali delle H e, visto che ogni calcio andato a buon fine valeva due punti, tutte le nostre speranze erano riposte in Elena.

Elena era l’estremo del nostro gruppo, non giocava da tanti anni, ma era molto brava a calciare, mentre solitamente i placcaggi non erano il suo forte. Lei comunque sosteneva di essere la giocatrice contro la quale nessuno poteva competere. A parte questo egocentrismo, Elena, o semplicemente Elli, era molto simpatica e, nonostante tutto, le volevo bene.

A tentare la prima trasformazione fu la squadra avversaria e per nostra fortuna la ragazza che calciò sbagliò, di qualche metro, la direzione del tiro. Quindi fu il nostro turno e Elena posizionò il conetto utilizzato per tenere la palla ferma davanti ai pali, a una dozzina di metri dalla linea, quindi si preparò a calciare.

Quando la palla ovale passò in mezzo all’H uno scroscio di applausi si abbatté sul campo da parte della nostra tifoseria. Il nostro pubblico era principalmente costituito dai genitori e dalle amiche delle giocatrici o dalle compagne di squadra infortunate.

Gli altri calci della squadra andarono meglio del primo, ma loro avevano esaurito i tentativi e a noi ne spettava ancora uno.

Ad effettuare l’ultima trasformazione sarebbe stata Martina, il numero tredici, che era molto veloce quando correva e i suoi calci erano sicuramente migliori dei miei. Avevamo qualche speranza.

La tensione crebbe a tal punto che nessuno parlava, non si sentiva alcun rumore diverso da quello del  vento che frusciava tra  le chiome degli alberi e che faceva volare le ciocche di capelli  sudati e sporchi scappati dalle trecce spettinate delle giocatrici.

Non avrei mai sopportato quella tensione se fossi stata io a dover calciare, ma Marti, dopo aver fatto tre respiri profondi, prese la rincorsa e calciò.

La palla si librò nell’ aria squarciandola  con un fischio e attraversò i pali dell’H.

Un boato si levò dalla nostra tifoseria e tutta la squadra si ammassò attorno e sopra la compagna, volarono pacche sulle spalle e urla di giubilo.

Dopo la premiazione le squadre si riunirono in una sala, dove mangiammo e scherzammo anche con le avversarie. In campo eravamo rivali, ma fuori eravamo tutte amiche, anzi, eravamo come una grande famiglia.

Dopo aver mangiato ci salutammo e ognuno tornò a casa propria. Io accompagnai Alice a una festa e poi mi diressi verso la fermata dell’autobus con il quale avrei raggiunto Martina in centro per cenare insieme a lei.

Rebecca Giordo

REGOLAMENTO:

Il rugby si gioca in quindici contro quindici in un campo rettangolare che misura 100 metri di lunghezza e 70 di larghezza ed è delimitato e attraversato da molte strisce bianche.

Il regolamento può sembrare molto complesso da capire ma in realtà è semplice, quando lo metti in pratica e quando hai un bravo allenatore che te lo spiega.

Il primo principio del rugby è avanzare, ossia passare la palla per arrivare dalla parte opposta del campo per segnare meta (schiacciare la palla a terra oltre la linea delle H ). Una regola che è difficile da mettere in pratica (soprattutto all’inizio) è che la palla va passata solo all’indietro, sennò è un fallo e bisogna fare  una mischia, cosa che sembra un ammasso di persone ma in realtà è una sorta di calcio di punizione. Ma  allora vi chiederete : “Come si fa a fare meta?” In realtà è semplice,  bisogna scartare la linea avversaria passando tra gli spazi lasciati dalla difesa.

La partita comincia con un calcio d’inizio effettuato da una squadra per l’altra e a quel punto la squadra che ha calciato deve creare una linea difensiva per riprendere il possesso della palla. Per fare questo ogni giocatore si deve impegnare a placcare e portare a terra l’avversario con la palla (placcare è fallo se il placcato non ha la palla). Una volta che il placcatore e il placcato sono a terra, quest’ultimo deve lasciare la palla, in modo tale da permettere alla sua squadra o a quella avversaria di prendersela. 

Quando la palla esce da un lato del campo si fa una touche, che è una sorta di piramide umana fatta da alcune persone delle due squadre nel tentativo di aggiudicarsi la palla.

In realtà ci sono molte altre regole e altrettanti ruoli, che sono però noiosi da spiegare, dunque mi limiterò a dire che io trovo questo sport bellissimo, adatto a tutti e da provare almeno una volta nella vita.

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