Su una strada deserta e oscura

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braoDa quanto sto guidando? Ore, forse giorni. La Highway scorre infinita dinanzi a me, aggredita dalle ruote della mia Chevrolet Chevelle. Dove sono? Non c’è nient’altro che oscurità oltre i fasci degli anabbaglianti. Passo una mano tra i capelli, accarezzo la nuca. Questo sedile mi sta uccidendo. Gli occhi bruciano, a ogni secondo che passa li sento sempre più pesanti. Le strisce bianche sull’asfalto mi ipnotizzano, uniche compagne di viaggio su questa strada deserta e infinita.

Arriverò mai a destinazione?

È questione di un attimo, solo un istante, un battito di ciglia più lungo degli altri. Tutto diventa leggero, le strisce sulla strada si fondono in una sola. La testa cade in avanti. Riapro gli occhi, prendendo rapidi respiri dalla bocca spalancata, mentre rimetto a fuoco la vista e stringo la presa sul volante. La linea bianca taglia di netto l’asfalto di fronte a me.

Il sudore mi imperla la fronte. Con le braccia tremanti sterzo fino a riportare l’auto nella sua corsia. Tento di riprendere fiato e deglutire il cuore che mi batte frenetico in gola.

Devo stare sveglio.

Abbasso il finestrino. L’aria fredda mi sferza il viso portando con sé un inconfondibile profumo dolciastro di colitas. Devono esserci delle coltivazioni nei dintorni. I fiori ormai pronti per il raccolto sono celati nell’oscurità, ma tutt’altro che invisibili al mio olfatto.

La testa è sempre più pesante, l’aria fresca non basta, la vista è ogni secondo più sfocata.

Devo fermarmi per la notte, o al prossimo battito di ciglia potrei non risvegliarmi.

Una luce in lontananza lacera il buio. 

A ogni giro del motore è sempre più intensa, finché non diventa abbagliante e riesco a leggere l’insegna blu al neon in cima al palo: Hotel California. E la piccola scritta vacancy, al di sotto, mi rincuora. Premo delicatamente sul freno e con lo sterzo accompagno l’auto nel vialetto, fino a raggiungere il maestoso edificio rischiarato dalla luce aranciata di piccoli riflettori. Resto un istante in contemplazione: mi ha sempre affascinato lo stile neoclassico americano. Come in un tempio greco, le possenti colonne bianche incorniciano

l’ampio portone in legno. La ghiaia sfrigola sotto gli pneumatici mentre parcheggio accanto a una Pagoda rossa. Incrocio i miei occhi stanchi nello specchietto retrovisore mentre passo una mano tra i capelli, tentando invano di ravvivarli. Riabbottono il colletto della camicia e prendo la giacca dal sedile accanto. Smonto dalla Chevelle e a passo lento percorro i gradini fino a giungere dinanzi all’uscio.

Busso con forza sull’elegante battiporta dorato. 

Il legno del portone è finemente intagliato con motivi geometrici in rilievo. Deve essere un albergo di gran lusso. Sento in lontananza i rintocchi di una campana.

Che ora è?

Conto i battiti, ma non riesco a finire, distratto dalla porta che si spalanca, rivelando la figura in controluce di una donna. Faccio un cenno con il capo, lei però non dice nulla. Si sposta per farmi entrare e resto abbagliato dalla sontuosità della hall: lampadari in cristallo e fregi dorati mi accolgono, bianche colonne classiche accompagnano i miei passi sul tappeto rosso fino al desk in legno intarsiato, oltre il quale mi attende un uomo alto, in un impeccabile completo marrone scuro. Mi guarda con un sorriso cordiale, ma ha una strana luce negli occhi.

Rabbrividisco senza nemmeno capirne il motivo.

«Benvenuto all’Hotel California» dice con voce calda, ma che non riesce a levarmi l’ingiustificato senso di gelo che sta assalendo il mio corpo, «qui siamo professionisti nell’accoglienza. Può lasciare la stanza e fare il check out in qualunque momento, ma…»

Non lo lascio finire, non riesco più a sostenere il suo sguardo.

Sono stanco.

Prendo una stanza e l’uomo consegna la chiave alla donna che mi ha accolto, nemmeno mi ero accorto di averla ancora accanto. Sembrano scambiarsi un ghigno malvagio assieme alla chiave. Probabilmente la stanchezza mi sta giocando brutti scherzi. Lei si volta a guardarmi. 

«L’accompagno»

La sua voce sensuale cattura la mia attenzione.

Non avevo notato quanto fosse bella: i capelli color miele incorniciano il viso dalla pelle tanto perfetta da farla sembrare una bambola di porcellana, le labbra carnose sono increspate in un ammaliante sorriso. È talmente attraente che ignoro quella strana luce nei suoi occhi cerulei che mi rende inquieto. Si volta, facendo fluttuare le onde dorate dei capelli. Non posso fare altro che seguirla, ammaliato dalla sua sublime essenza.

Delle voci alle mie spalle mi attirano.

Mi volto verso un gruppo di tre donne sontuosamente vestite, sedute sugli eleganti divanetti della hall foderati in velluto rosso e con zampe leonine dorate. Fumano  lunghe e sottili sigarette. Non capisco che età possano avere: la loro pelle è arsa dal sole californiano e avvizzita dal fumo.

«Benvenuto all’Hotel California. Posto incantevole, non trova?» dicono in coro con le loro voci graffianti. Sogghignano, squadrandomi dalla testa ai piedi, mentre dalle labbra soffiano via il fumo che si addensa in una nube bianca sopra di loro.

«C’è sempre abbondanza di stanze all’Hotel California, si trovano tutto l’anno.» Ridacchiano, venendo poi colte da violenti colpi di tosse, che tentano di contrastare ispirando l’ennesimo lungo tiro che fa brillare le punte delle sigarette. Abbozzo un falso sorriso e faccio un cortese cenno del capo.

Un brivido mi attraversa la schiena. Mi sento congelare.

Perché?

Fisso la donna dinanzi a me. È così perfetta fasciata in quel provocante vestito rosso.

Avvampo.

Che cos’ha questo posto? A prima vista sembra il Paradiso, ma potrebbe benissimo essere l’Inferno. Stiamo per imboccare il corridoio, quando vengo raggiunto da un fragore di musica e voci concitate. Mi fermo, voltandomi verso la porta vetrata. Al di là, luci colorate e persone danzanti invadono il giardino. La donna nota la mia esitazione e torna sui suoi passi. Mi fa un seducente sorriso.

«Vieni a conoscere i miei amici.» Mi precede oltre la porta, la musica alta mi travolge. Appena varca la soglia tutti si girano a guardarla. In pochi istanti si ritrova circondata da bellissimi ragazzi di ogni età e nazionalità che le ballano intorno, con gli occhi vacui e le espressioni assenti, come stregati da lei, incapaci di distogliere lo sguardo.

Lei li asseconda, balla in mezzo a loro con movenze sensuali, inebriandosi di quelle occhiate e delle loro attenzioni. Mi avvicino al bancone, sollevo un dito per richiamare l’attenzione del barista e ordino da bere.

«Non abbiamo quel vino dal 1969, signore» si scusa lui. Mi mette davanti un calice. Non è ciò che ho ordinato, ma non ci faccio caso, sono troppo assorto a contemplare quella donna ballare, circondata dalla notte e dalla musica che nemmeno sento più.

Si stacca dal gruppo, viene verso di me, gli occhi incatenati ai miei.

Il mio corpo è pervaso da brividi freddi, ma prende ad ardere appena mi posa la mano sul petto e inizia a ballarmi addosso. Butto giù in un sorso il drink, mi libero la mano dal bicchiere e le afferro i fianchi, tirandola ancora più a me.

La musica scompare, il mondo intero scompare. Non sento più niente.

Sono un cieco perso in un deserto di silenzio.

D’un tratto percepisco qualcosa in lontananza, un sussurro che si fa sempre più intenso, finché riesco a distinguere delle voci: «Benvenuto all’Hotel California. Posto incantevole, non trova? Facce incantevoli… Sanno come spassarsela all’Hotel California…»

Apro gli occhi.

Dove sono?

Ci sono degli specchi sul soffitto, ho in mano un bicchiere di champagne rosa con ghiaccio.

Cos’è successo?

Il viso della splendida donna mi compare dinanzi.

Il cuore perde un battito.

«Noi qui siamo solo dei prigionieri, ingabbiati dalla nostra stessa volontà» mi sussurra sensuale all’orecchio. Mi mordicchia il lobo, mentre mi carezza la guancia.

«Sono venuti tutti alla festa nella stanza del padrone. L’hanno pugnalato infinite volte con i loro coltelli, ma non riusciranno mai a uccidere la bestia.»

Cosa sta dicendo? Non riesco a capire le sue parole.

D’un tratto lo specchio sopra di noi si incrina, fino a creparsi. Pezzi del fregio dorato che incornicia il soffitto si staccano. L’intonaco bianco sulle pareti si tinge di aloni giallastri e si scrosta, rivelando chiazze scure laddove la vernice si sta staccando.

Cosa sta succedendo?

Punto lo sguardo sulla donna. Metto a fuoco quel viso perfetto. I suoi occhi vengono attraversati da un lampo che mi fa accapponare la pelle.. Profonde rughe iniziano a solcarle i lineamenti. Le guance, che prima parevano di porcellana, avvizziscono e si incavano. I capelli sembrano fili di juta

Un ghigno spaventoso le distorce le labbra arse e screpolate.

Resto paralizzato, incapace di comprendere ciò che sta accadendo. Forse è solo un incubo. Uno scherzo giocato dalla mia mente annebbiata dalla stanchezza. Sento una strana sensazione sulla guancia là dove lei mi carezzava. Ci passo le dita e percepisco qualcosa di umido. Le porto davanti agli occhi, sono tinte di scarlatto. Abbasso lo sguardo sulla donna: il suo vestito rosso d’improvviso sembra animarsi, pare gocciolarle via dalla pelle.

Perdo il respiro appena mi rendo conto che non è un abito: sangue caldo e denso che le avvolge il corpo macilento e mi imbratta le vesti.

Il cuore smette di battere solo per un istante, per poi schizzarmi in gola, fino quasi a squarciarla.

Mi alzo di scatto, facendo cadere la bionda a terra. Il pavimento è un lago scarlatto. In un angolo della stanza un gruppo di uomini emaciati si sta accanendo su un essere accasciato su una poltrona dorata. Uno di essi si gira verso di me, bloccando a mezz’aria la mano che brandisce un pugnale. Ha il volto scavato schizzato di sangue, gli occhi spenti. Riconosco in lui uno di quei bellissimi giovani che ballavano in giardino. Mi sento afferrare una gamba. Distolgo lo sguardo dalla macabra scena per posarlo sulla donna ai miei piedi. Si è trascinata a terra fino ad avvinghiarsi alla mia caviglia. Urlo e l’allontano con un calcio. Mi manca l’ossigeno, il sudore mi offusca la vista.

Vengo sopraffatto dal panico.

Con uno scatto imbocco la porta e inizio a correre lungo il corridoio illuminato dalla tetra luce dei ceri, retti dai candelabri appesi alle pareti. I muri sono graffiati e scrostati, i tappeti consunti, frammenti di soffitto piovono a terra.

Devo andarmene. Delle voci mi rimbombano nella testa.

Oltre le porte che si affacciano sul corridoio compaiono altre persone scheletriche ricoperte di sangue, «Benvenuto all’Hotel California…» cantilenano. Grido per non sentirli, mentre corro più forte, fino a farmi male alle gambe. Vedo una luce in fondo al corridoio, la inseguo finché diviene accecante.

Finalmente sono nella hall.

Le tre donne sono ancora lì, avvolte nella loro stessa nebbia, ignare di ciò che sta accadendo a pochi passi da loro. Grido implorando aiuto, ma dalle labbra non esce nessun suono. Mi precipito verso l’imponente portone. Mi sento soffocare, l’aria che rapidamente inalo dalla bocca spalancata non è abbastanza. Afferro la maniglia dorata, mentre l’uomo impettito dietro il desk cerca di richiamare la mia attenzione con voce calda e pacata: «Benvenuto all’Hotel California…»

Lo ignoro e tiro la maniglia con tutte le mie forze, fino a spalancare il portone.

Sono salvo.

Il cuore smette di battere e il respiro si blocca in gola.

Resto pietrificato.

Oltre l’uscio c’è una sontuosa hall, esattamente come quella alle mie spalle. C’è un uomo alto e impettito al desk, alla fine del lungo tappeto rosso costeggiato da bianche colonne classiche dai capitelli dorati. Mi volto di scatto, ma dietro di me vedo la stessa immagine.

Due copie perfettamente specchiate della stessa stanza.

«Qui siamo professionisti nell’accoglienza» dicono all’unisono i due uomini, facendomi raggelare il sangue nelle vene, «può lasciare la stanza e fare il check-out in qualunque momento, ma non potrà mai andarsene.»

Stella Camilla Brao

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