Paese che vai …

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foto articolo_CamolettoAndai per la prima volta ad Amsterdam a 10 anni. Rimasi incantata da quello che vidi. I canali, le biciclette ovunque, l’architettura così caratteristica. Ogni via nascondeva qualcosa di bellissimo e particolare, ogni museo mi lasciava a bocca aperta, e, una volta finita quella breve vacanza, l’unica cosa cui riuscivo a pensare era che avrei voluto andare a vivere il prima possibile in quella città per me così pittoresca e mozzafiato. 

L’occasione mi si è presentata con la possibilità di passare un semestre all’estero. Ho colto subito l’opportunità per poter realizzare il mio sogno di bambina, ancora innamorata di quella città che sentivo attirarmi come una calamita. Facendo il possibile per imparare la lingua e trovare una scuola e una famiglia che mi accettassero, sono riuscita a realizzare il mio sogno e a settembre mi sono trasferita ad Amsterdam per iniziare la mia piccola avventura. 

Mi è bastato poco tempo per rendermi conto che non sarebbe stato come se lo aspettava la me di 10 anni. Certo, la città era incredibilmente bella come me la ricordavo, e sentirmi parte di essa in quanto sua cittadina mi ha inevitabilmente commosso in alcuni momenti. Pedalare da sola su quei canali, che avevo visto per mano con i miei genitori; passeggiare per le strade osservando ogni dettaglio con occhi diversi, più maturi, ma ancora più curiosi, se possibile, ha scaturito in me un senso di pace e di nuova meraviglia che non provavo da tempo. 

Una città, tuttavia, non è solo case: è chi ci vive che la rende autentica, e presto mi sono scontrata, più bruscamente di quanto avrei voluto, con le differenze culturali che mi circondano. 

La scuola in primis. Sono rimasta sorpresa dal fatto che, eccezion fatta per alcune ragazze conosciute il primo giorno, nessuno sembrava particolarmente interessato alla mia presenza. Non mi aspettavo nessun tipo di caloroso benvenuto o attenzioni particolari, ma dentro di me immaginavo un po’ più di curiosità da parte dei miei compagni di classe. In due mesi di scuola, infatti, si sono aperti ben poco e solo in casi strettamente necessari. Ho capito più avanti che questo è in parte determinato dal fatto che sono più inclini a pensare di non voler arrecare disturbo in alcun modo: preferiscono evitare di fare il primo passo per non sembrare fastidiosi o troppo invadenti. Mentre in Italia siamo più propensi a farci avanti per primi, soprattutto con persone straniere, magari per semplice curiosità; qui la visione dello spazio personale è estremamente importante e viene rispettata scrupolosamente, certe volte a rischio di sembrare totalmente distaccati. 

Lo stesso discorso vale anche per la privacy delle case. Le finestre degli appartamenti, anche di quelli al piano terra, non hanno tende e mettono tranquillamente in mostra i luoghi della vita quotidiana, come cucina e salotto, dove si passa la maggior parte del tempo. 

Ne ho chiesto il motivo a un’amica conosciuta qui e come mai non trovino fastidioso che chiunque possa guardare dentro una casa altrui. “Semplicemente perché nessuno guarda”, è stata la risposta.

Questo è stato uno shock culturale che ha segnato molto le mie interazioni con le persone. Di frequente risulto essere una persona alquanto timida e il fatto che gli altri fossero altrettanto riservati e poco propensi a interagire non ha aiutato ad ampliare le mie conoscenze, né a passare molto tempo insieme ad altre persone. 

Un’altra cosa che per me è stata molto curiosa è il modo in cui i momenti conviviali siano strettamente legati alla necessità e nulla di più. Pratici e svelti, senza perdersi in numerose portate, caffè, chiacchiere. L’idea di perdere tempo prezioso è innata in quasi chiunque e passare molto tempo a tavola è un modo di sprecare preziosi attimi di vita. Mi sono soventemente  sentita dire “Hai finito? Possiamo sparecchiare?” giusto pochi secondi dopo aver ingoiato l’ultimo boccone. Sono stata a “pranzi” di compleanno della durata massima di un’ora, come  fosse maleducato fermarsi per troppo tempo. 

Tutto questo insieme ha lasciato la me bambina un po’ amareggiata nel rendermi conto che fare conoscenza, amicizia, interagire con le persone e farmi spazio nella loro vita sarebbe stato – ed è stato – molto più difficile di quanto avrei mai potuto immaginare. 

Non tanto perché le persone non fossero curiose nei miei confronti, quanto perché le differenze culturali sono tangibili nella socialità quotidiana. Sono comunque riuscita a fare qualche conoscenza, ma paradossalmente la vera unica amica che ho trovato è una ragazza di Torino, anche lei qui per il semestre all’estero. Certo, entrambe stiamo vivendo le stesse sensazioni e affrontando le stesse difficoltà, ma allo stesso tempo siamo accomunate dallo stesso modo di agire e pensare. 

Vivendo le differenze sulla mia pelle, mentre sto ancora cercando di adattarmi e integrarmi al meglio, ho capito che il mio sogno di bambina non si è avverato nel modo che immaginavo. La città che avevo idealizzato per anni si è rivelata tanto affascinante quanto complessa, e la realtà di viverci ogni giorno mi ha messo di fronte a sfide che non avevo previsto. Tutte le differenze culturali, anche quelle più sottili, mi sono sembrate ostacoli insormontabili all’inizio, e in parte lo sono ancora, ma rappresentano anche l’opportunità di crescere e di vedere il mondo con occhi diversi. Mi rendo conto che l’amore che nutrivo per Amsterdam non è mai svanito, ma si è trasformato. La città continua a togliermi il fiato ogni giorno, con i suoi canali, le biciclette, e la sua bellezza inconfondibile, ma ora sono anche consapevole di cosa c’è al di là delle apparenze. 

La difficoltà di adattamento, nell’entrare veramente in contatto con le persone, mi ha insegnato l’importanza della pazienza, del rispetto reciproco e, soprattutto, dell’apertura mentale. Ogni esperienza di vita, anche quella più difficile, ci arricchisce e ci fa evolvere.

Bianca Camoletto

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