“Mi svegliavo stamattina faccia e corpo colorati e i giornali e la televisione non sembravan spaventati. Non credo a un mondo che rotola indietro, non credo che per vivere serva un segreto, non credo alle favole, ma ho immaginazione e credo che sian tutti uguali e diversi da me.” Grignani, per carità, non è certo il “signor G”, ma le sue parole sono comunque un buon punto di partenza.
Musica e letteratura, infatti, sono forse i mezzi con cui l’uomo riesce ad esprimersi in modo più libero; i temi trattati sono molteplici, quasi infiniti. Il più comune è l’amore, ma tanti sono anche i momenti in cui i ricamatori delle sette note trattano della diversità, della differenza tra uomini, nel loro modo di apparire, di pensare. Come non pensare quindi a Fabrizio De Andrè, che ha fatto delle anomalie il cardine dei suoi testi, dell’emarginazione il punto centrale delle sue storie cantate.
“Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente […] passano gli anni, i mesi e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi grandi senza essere cresciuti […] fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami e diventai procuratore […] e allora la mia statura non dispensò più buonuomore a chi alla sbarra in piedi mi diceva “Vostro Onore” e di affidarli al boia fu un piacere tutto mio, prima di genuflettermi nell’ora dell’addio non conoscendo affatto la statura di Dio”. Qui la diversità è affrontata sul piano del difetto fisico, il non rispecchiare i canoni di una società che rivendica un uomo alto e di bell’aspetto. Fortunatamente però il protagonista della canzone sfoggia qualità opposte a quelle dell’apparenza che gli permettono di avvalersi di un posto importante nella società: quello di amministratore di giustizia; precedentemente considerato diverso ed inferiore dagli altri si trova ad affidarli al boia con un immenso piacere attuando così la riscossa dei reietti.
Se per De Andrè gli emarginati cercano di riscattarsi in altro modo, c’è anche chi, come la “Sally” di Vasco Rossi, “cammina per la strada sicura senza pensare a niente, ormai guarda la gente con aria indifferente” e “sono lontani quei momenti quando uno sguardo provocava turbamenti, quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole perché la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia”. Usando un luogo comune Vasco ha, con poche parole, dato una dettagliata panoramica di quella che è la vita di tutti i giorni. Non è forse un continuo cercare di rimanere stabili su quel filo che separa gli uomini dalla pazzia? Un inseguire le ambizioni di tutti per non risultare fuori dagli schemi, per non dover poi risalire il baratro della solitudine proprio di chi non viene compreso o allontanato? Gente che si spinge a compiere atti estremi come il “Bombarolo” di De Andrè che si dedica con tanto amore al tritolo e che non verrà mai fatto “cavaliere del lavoro” in quanto egli è “d’un’altra razza”.
Ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è stato definito da anni di civilizzazione che hanno portato l’uomo a comportarsi in una determinata maniera, perché se qualcuno dovesse infrangere le leggi di convivenza verrebbe etichettato come pazzo, insensato. La follia però è un lato oscuro insito nell’uomo che lui stesso cerca di respingere o di reprimere; quel lato oscuro che induce ad uccidere; quella stessa indole che, nel tentativo di essere eliminata, ha portato la società moderna a richiedere uomini in giacca e cravatta con un sorriso sempre stampato sulla faccia ed una compostezza pronta ad essere esibita in ogni istante.
Ma è davvero questa la natura dell’uomo? O perdere quell’equilibrio sopra la follia non sarebbe poi un grande errore?
Nastassia Aldanese (3C)