Ah, sì. Dòbre. Bene, in bulgaro.
La luce del frigorifero rischiara per un attimo la cucina deserta, poi cala di nuovo la tenebra. Davanti allo specchio dell’ingresso è chiaro che gli abiti di tuo padre non solo puzzano di dopobarba da uomo, ma che ti pendono addosso come sul manico d’una scopa. Il parquet del corridoio geme sotto le pantofole sfondate con i soliti, acuti scricchiolii. Il rumore vetroso della Tuborg gelata sulla scrivania ha un suono confortante, ed il monitor del computer sfavilla azzurrino nel buio. Sono le due e ventiquattro. Nell’aria, il profumo di casa che tanto mancava. Dòbre. Si va in scena.
È stato un patriottismo un po’ isterico quello del panino Italia da quattro Euro ed ottanta del bar dell’aeroporto, devi ammetterlo. È tutta la sera che ti viene su: mai fidarsi dei tipi riccioluti che alla cassa ti chiamano bella ragazza. Ma, vedete, aveva un accento così bello. Di Roma. Ma quello puro, quello de Roma proprio. Italiano fino al midollo. Eh, be’. Ti credo. Dopo una settimana di quelle parole vorticose, frenetiche, incalzanti, di quelle consonanti gutturali che emergono dal fondo dalla gola, di quei suoni spigolosi, duri come il diamante, impronunciabili, è ovvio che alla perfetta sinfonia dell’italiano cadi in ginocchio. Non erano gli occhi azzurri del commesso, no no. Era la sublime musica della tua lingua: tesa, vibrante, una nota, un’unica nota infinita, piena, completa, assoluta. Come un’idea sempre stata dietro le palpebre. Non è ben chiaro il perché, ma nella mente ti rimbombano il vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare della Commedia ed il mortifero al mio segnale, scatenate l’inferno di Russel Crowe che sguaina il gladio a cavallo.
Sono le due e trentatré.
Devi farti una doccia, i tuoi capelli odorano ancora della casa di Christian Panseri, il ragazzo che ti ha ospitata per una luuuuunga settimana a Sofia, capelli che sanno ancora di quel sentore di tabacco per pipa e deodorante per ambienti ai legni pregiati da quattro soldi. È così strano sentirti l’odore d’un altro letto, di un’altra cucina, di un’altra famiglia, di un’altra città, d’un altro mondo addosso. Tua mamma ti ammazza quando apre la porta dello sgabuzzino e verrà sommersa dalla cesta della roba sporca straripante. Tutti i tuoi vestiti sono a lavare. Tutti. Anche quelli che non hai messo e che sono rimasti avviluppati in valigia. Voglio solo il mio, di odore. Eppure, hai attaccato sulla parete delle cartoline in camera tua anche quelle portate da Sofia. Ti è sembrato giusto ed istintivo metterle lì, in belle vista, tra quelle dell’acropoli di Atene e quella della Sacra di S. Michele innevata. Perché è un sentimento mai vissuto prima. Non si tratta dell’imbarazzo che hai provato quando hai visto il santino che il tuo corrispondente ti ha regalato, quando Mercoledì 25 Aprile hai fatto visita al monastero di Rila. A te, che sei atea dal momento in cui hai cominciato a pensare. Santino tra l’altro così brutto che non hai avuto il coraggio di mettere in borsa e che hai nascosto nel sacchetto di plastica fra i panini del pranzo al sacco. Ma è un misto di vergogna – non si sa bene di che cosa – disagio, malessere, disorientamento, patriottismo un po’ vendicativo, tenerezza, sollievo, liberazione. È come se sapessi che la casa del tuo corrispondente – anche se ti ci insediassi per un mese tipo campo nomadi – ti rimarrebbe sempre avulsa, estranea, e percepissi allo stesso tempo casa tua come diffidente, ostile, irreale, diversa da come l’avevi lasciata prima (anche se c’è persino la sbavatura di mascara sullo specchio fatta la mattina della partenza mentre di truccavi a tenoni nel buio).
Solleva la Tuborg, bevine un sorso, e sbattila sulla scrivania con un sospiro di soddisfazione. Scambi del genere sono per gente tosta. Si è orgogliosi, dopo, di ciò che si è detto e fatto, di ciò che si è visto. A molti è venuto in mente il film Goodbye Lenin. Non so se l’abbiate visto, ma sembrava di essere sul set d’una Berlino est che si risvegliava stiracchiandosi dopo il regime comunista. Grandi condomini che cadono a pezzi, disseminati qua e là di condizionatori, parabole e stendibiancheria improvvisati su pezzi di spago tirati da un capo all’altro degli asfittici balconi, bowling mezzi vuoti supertecnologici fulgidi di luci psichedeliche, la bandiera stars and stripes dell’università americana che pende floscia contro il cielo opalino. Era un’atmosfera un po’ rallentata, trasognata: come il tempo, lo spazio si allarga, si dilata. Tutto a Sofia è più grande: i parchi, le case, i letti, le linee della metropolitana, le fermate di un veicolo che non è né un autobus né un tram ma che prende il famosissimo nome di filobus, le porzioni di zuppa, le porzioni di aglio, i cortili delle scuole, il cuore e la cortesia della gente, le spranghe di ferro con cui le ronde di sbandati picchiano i serbi e gli zingari. La sera ci sono Petia e Martina Vanelli che mi prendono per mano nel buio d’un vicolo, come in una catena vivente, e Christian che qualche passo dietro di noi ci guarda le spalle e ci dice di correre perché qualcuno sta prendendo a sprangate qualcun altro al di là della strada, e le ruote delle macchina stridono e sgommano. Non possiamo farci vedere nemmeno dalla polizia, perché qui vige il coprifuoco per i minorenni di rientrare a casa entro le dieci – pena una salatissima multa – ed è mezzanotte passata. Poi, Martedì, alla scuola di Danza nazionale, c’è lo spettacolo di balli bulgari. Ah, che tripudio di colori, di stoffe, di campanelle, di pizzi. Certo è che la musica bulgara assomiglia molto a quella orientale, quella sentendo la quale di solito ci si immagina il tizio con il turbante che suonando il flauto ipnotizza il serpente. Ma qui le donne sono bionde e sorridono agitando le mani in aria con grazia tutte inghirlandate, e gli uomini saltano e sgambettano rasoterra con le braccia incrociate alla russa ammiccando alle ragazze e lanciando in aria virili grida di conquista. Ti dimeni a disagio sulla sedia, un piacere non del tutto voluto che formicola fra le cosce. Sei abituata a vedere un tipo di sensualità lenta, capricciosa, maliziosa, a giocare questo tipo di gioco con gli uomini del tuo paese. Ma questa è una voluttà campagnola, rustica, sincera, franca, frizzante, un dono che viene presto così come viene dato. In Bulgaria gli uomini sono cortesi e … si, cavallereschi, perché credono che sia loro dovere esserlo. In Italia, lo sono perché qualche volta stanno al gioco. Ma, ad ogni modo, non hai mai visto un ospite trattato così bene. La società omerica con tutti i suoi vincoli ospitali sembra così rozza, al confronto. L’ospite in Bulgaria è sacro, servito e riverito sino all’apice della follia. Mamma mia.
Le tre e zero cinque.
Tuo padre entra in camera e ti dice che ha svuotato e messo in ordine la borsa del laptop. Ha trovato tre pinze, di quelle che si usano per pinzare i fogli delle tesine, per tenere fermi i fogli dello spartito della serenata di Schubert, o per chiudere la confezione di Gocciole. Te le versa sul palmo mentre afferra la bottiglia della Tuborg. Tu le guardi, ed un angolo della tua bocca s’arriccia in un sorriso.
Una è verde, una bianca e l’altra è rossa.
Dòbre.
Sara Schiara (3B)