Novembre è cominciato e finito, le foglie si staccano dagli alberi per lasciare spazio a rami spogli e secchi e i bei colori dell’autunno sbiadiscono a poco a poco. Un paesaggio senza dubbio molto romantico e nostalgico, senza contare il vento e la pioggia portati dall’uragano Sandy o le carie e i chili che avanzano, grazie ai postumi di Halloween e il suo “Trick-or-Treat” e alla vicinanza di Natale.
Ma Novembre non è un mese caratterizzato solo dal sopraggiungere dell’inverno o dai tacchini enormi del Giorno del Ringraziamento, quanto anche dall’elezione dell’uomo più potente del mondo, il Presidente degli Stati Uniti d’America.
Ogni quattro anni, infatti, l’Election Day occorre il primo martedì dopo il primo lunedì di questo mese. Un modo piuttosto strano di determinare il giorno in cui tutta la nazione si troverà alle urne per votare, ma bisogna considerare che all’alba del diciannovesimo secolo, quando gli Stati Uniti erano una terra di praterie popolata da contadini e mucche, non bastava afferrare le chiavi della macchina per uscire. Nacque così la tradizione che a Novembre, quando i contadini potevano riposarsi dal lavoro estivo in attesa del gelo invernale, tutti sarebbero stati abbastanza liberi dal potersi ritrovare un martedì (non un lunedì, perchè in molti si sarebbero dovuti mettere in viaggio la domenica saltando la messa) per decidere chi si sarebbe guadagnato il titolo di Presidente della nazione.
Così si è andati avanti per secoli, da Zachary Taylor nel 1848 a Barack Obama nel 2008. Martedì 6 Novembre 2012, milioni di Americani si sono trovati alle urne per mettere fine a quella che forse è una delle gare più accese di sempre: quella tra Barack Obama e il governatore del Massachussets Mitt Romney. Il clima della campagna elettorale è stato piuttosto acceso, soprattutto qui in Ohio, uno dei cosiddetti “swing states” (quelli che effettivamente decidono il risultato delle elezioni). I cartelli disposti in giro per le strade e nei giardini delle case erano diventati semplicemente esasperanti, senza contare le innumerevoli pubblicità su YouTube, alla televisione e alla radio, dove i due candidati facevano di tutto per convincere gli elettori di quanto fossero più bravi e più belli dell’avversario.
Il tutto si è concluso la stessa sera, quando telegiornali e siti web hanno annunciato la rielezione dell’afro-americano Obama e in pochi giorni cartelli e pubblicità sono spariti nel nulla, portando con loro altri quattro anni di attesa per l’elezione del prossimo e quarantacinquesimo Presidente.
Il resto del mese è passato così in un soffio, noioso e in qualche modo tetro, e si è finalmente arrivati a giovedì 22, ovvero il Giorno del Ringraziamento.
Alle 9 a.m. ET (East Coast), i più mattinieri si sono piazzati davanti alla televisione per assistere ad uno degli eventi dell’anno, ovvero l’ottantaseiesima Macy’s Thanksgiving Day Parade. Una parata degna di quella torinese degli Alpini l’anno scorso per, con tanto di bande liceali da tutta la nazione che suonano e si esibiscono in stupende coreografie, carri decorati splendidamente da Muppets e bambini che cantano in coro, enormi palloni a forma di Spider-Man e Charlie Brown e qualunque cosa riuscisse a sfilare lungo le vie di New York City. Più di tre milioni di persone si sono riversati in città per assistere alla sfilata dal vivo, e cinquanta milioni erano incollati davanti allo schermo. Il tutto gentilmente sponsorizzato da Macy’s, immensa catena di negozi che da sempre si dedica alla parata.
Da ciò si può capire come Thanksgiving sia una festa molto apprezzata dagli Americani, forse la più festeggiata in assoluto, poiché porta in tavola tonnellate di cibo buonissimo e molto vario. Il protagonista del pranzo è un immenso e grasso tacchino di venti libbre (circa dieci chili), ma è molto probabile che la casa offra anche purè di patate, insalate varie, sformati di patate dolci e mele, macaroni & cheese, bistecche e pasticci di carne e verdure. Insomma, la tavola è strapiena ma lo stomaco riesce a resistere fino al dolce, quando finalmente ci si può strafogare di pumpkin pie per riempire tutti i minuscoli spazi rimasti ancora vuoti.
Nulla a che vedere con un classico pranzo natalizio italiano, comunque, dove solitamente ci si ritrova boccheggianti a metà del secondo e si rischia l’esplosione arrivati al dolce. Inoltre, un pranzo americano di questo tipo dura “appena” un’ora e mezza, mentre le tempistiche italiane sono assolutamente sconosciute e tutti sanno benissimo che possono arrivare a sfiorare le cinque o sei ore senza problemi. Un’esperienza, ad ogni modo. E non si sa mai che qualche exchange student torni in Italia con la ricetta della squisita pumpkin pie in tasca.
Matilde Revelli,
corrispondente dagli Stati Uniti