Cosa si prova ad essere nati negli anni del boom della tecnica, dell’ingegneria biomedica e delle nanotecnologie? A vivere nell’epoca della connessione ad Internet che, come un Grande Fratello di orwelliana memoria, ci guarda e ci accompagna ovunque andiamo, in ogni nostra azione ed incontro?
Onestamente, non lo so. Dubito che qualcuno della mia età ci abbia mai davvero pensato.
Continuano a definirci “nativi digitali”, come se fossimo già predisposti ad utilizzare tecnologie che altri ci hanno imposto sin dalla culla. Ci considerano nati per usufruire di ciò che le generazioni a noi precedenti hanno sviluppato e venduto a genitori entusiasti di vedere i propri pargoli smanettare alla velocità della luce su tastiere grandi, piccole, touch, adesso addirittura pieghevoli. Viviamo perennemente connessi, non abbiamo più bisogno di prendere un treno o un aereo per raggiungere una persona che vive dall’altra parte d’Europa: basta il tocco di un polpastrello sullo schermo di uno smartphone per sentire la sua voce o addirittura vederla.
Anche solo vent’anni fa tutto questo sarebbe stato impensabile. Siamo totalmente diversi dalle generazioni precedenti, quasi un’altra specie: un nuovo homo digitalis reso tale non dall’abilità manuale come l’homo habilis o da un linguaggio ben articolato come l’homo sapiens, ma dall’uso del dito che, sempre più veloce, corre su schermi sempre più piccoli.
L’unico problema è che tutta questa tecnologia che ci circonda non è opera nostra, dei “nativi digitali”. “Nativi”, appunto. Non “pionieri” o “sviluppatori”. Il progresso ci è già arrivato bell’e pronto dai nostri predecessori. Eppure l’homo sapiens ha iniziato a parlare da sé, senza aver trovato il linguaggio articolato già sviluppato da qualche homo erectus particolarmente ingegnoso.
Veniamo visti come una generazione di consumatori, di oche da ingozzare di tecnologie smart per trarne un foie gras fatto di verdoni.
Eppure nel corso della storia si sono sempre fatti progressi in ogni campo, in ogni epoca storica si è sempre cercato di lasciare qualcosa di buono ai posteri. Ma se questo iperconnesso “new world” non fosse proprio l’ultimo stadio del progresso? Se ci fosse ancora molto da fare?
Ce n’è sicuramente, e anche tanto, basta guardarsi attorno. Abbiamo la luce elettrica, ma gli oceani del pianeta sono stati devastati da decenni di inquinamento ed estrazioni petrolifere selvagge. Le stampanti 3D sono in via di sviluppo, ma gran parte della superficie terrestre è coperta di rifiuti. Con un click riusciamo ad accedere ad informazioni di ogni tipo, ma lo strato di ozono è ridotto a brandelli. Possiamo conservare il cibo anche per mesi, ma milioni di persone muoiono tutt’ora di fame. È il periodo di Luca Parmitano e di Samantha Cristoforetti, ma anche delle aggressioni omofobe e dei femminicidi. Stiamo colonizzando lo spazio, ma combattiamo ancora guerre fratricide. Leopardi ci aveva visto davvero lungo sull’epoca a lui futura.
I nostri nonni e genitori ci hanno dato un sacco di dispositivi intelligenti: che sia venuto il momento di formare persone intelligenti per risolvere questi problemi e continuare a rincorrere quel fantomatico ideale di “progresso” che l’umanità insegue sin dalle sue origini?
Per cercare, almeno in parte, una risposta a questo le quinte del LSI si sono recate al Festival della Scienza di Genova, iniziando il percorso proprio con una conferenza dal titolo “Giovani e innovazione: è tempo di biotech”.
“Giovani”, parola ormai abusata che ricorre in quasi tutti i progetti di politici e scuole. Bisogna formare i giovani, su questo sono tutti d’accordo. Ma è su cosa si intenda per “formare” che nascono le maggiori divergenze. Per alcuni significa improntarci a lavorare come macchine per guadagnare soldi per comprare mucchi di cose che non ci serviranno, per altri semplicemente farci capire che non c’è più speranza per noi, che siamo una generazione bruciata, il capolinea dell’umanità.
Eppure, quella giornata ci ha lasciato qualcosa di buono, quindi, in un certo senso, ci ha davvero formati. Ci ha fatto capire che, nonostante tutto ciò che si sente dire in giro, per noi c’è ancora spazio, persino in Italia (ne è la dimostrazione la giovane ricercatrice Marianna Iorio che, con un team tutto al femminile, si occupa di ricerca oncologica al Centro Tumori di Milano), che possiamo avere anche noi dei talenti da mettere al servizio dell’umanità.
È un compito a cui siamo stati chiamati e a cui non possiamo sottrarci, ma che ognuno svolgerà semplicemente seguendo la propria vocazione: non dobbiamo diventare tutti medici o ingegneri, si può fare molto anche con un libro, un discorso o una canzone.
Tuttavia, se qualcuno ha la passione della scienza, perché non sfruttarla? Siamo giovani, abbiamo talento: usiamolo. Se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo essere noi a costruircelo, non solo esplorando l’Universo, ma soprattutto facendo di tutto per rendere migliore la stessa Terra.
Parafrasando i Queen, il vero miracolo dobbiamo farcelo da noi, non aspettare che ci arrivi da chissà dove.
Beatrice Costa (5G)