Nell’incipit del libro “Per le mute vie” lei afferma che ci sono delle parole davanti alle quali il sardo non può piegarsi, non si possono esprimere con altri idiomi. Scrivere questo libro, profondamente improntato sulla Sardegna in italiano è stato difficile? Il sardo stesso non sarebbe stato il linguaggio più adatto per parlare dell’isola e delle sua cultura?
Io voglio essere letto, lo dico. Se scrivo in sardo mi possono leggere in pochi, se scrivo in italiano mi leggono in molti; anzi, anche l’italiano sta cominciando a diventare stretto. Io sono bilingue: scrivo poesie in sardo e scrivo in italiano in prosa e quindi uso il veicolo che mi permette veramente di far navigare il libro. Il codice linguistico italiano è quello che adotto proprio per questa ragione. Quando ho detto che non a tutto il sardo si piega è dovuto al fatto che la lingua si evolve. E’ chiaro che se dico “libro” in sardo dico “libru” da liber, libris. Ma se devo dire “computer” dico solo “su computer” (“su” deriva da ipse, ipsa, ipsum). Conscio di tutto questo voglio arrivare al centro della questione: il mio libro. Adesso io sono distribuito nazionalmente da messaggerie di Milano, cosa dovuta anche al fatto che il libro è in italiano. Io voglio avere tanti lettori, spero di conquistarne uno in più ogni giorno. Lavoro anche su facebook per questo, non sempre, breviter sed quotidie. Ogni giorno ci scrivo un pensiero sul tempo, sulla politica. E mi metto in contatto con persone che mi epsrimono il loro apprezzamento.
Prima si è parlato della grande differenza fra la realtà storica della penisola degli anni sessanta e ciò che è accaduto invece in Sardegna. Lei crede che anche oggi ci sia questa profonda differenza?
Come ha detto Pia Deidda, attorno a noi, in Sardegna, c’è un proliferare di scrittori di valore. Ci si rende conto che la Sardegna, con i suoi milione e seicento mila abitanti ha comunque rispetto alle altre regioni d’Italia molti più autori di spessore. Sapete perché? Io me lo spiego così: è fortissimo il contrasto fra il mio io senziente, la mia sensibilità e il mondo che mi circonda. Più forte è l’attrito, più si creano scintille che sono poi i nuclei narrativi delle storie. Indubbiamente la Sardegna è diversa dalla Romagna, dalla Lombardia … Se lì facevano già lotte noi stavamo ancora scontando un’epoca ancestrale che ci legava al passato, che voleva annusare il nuovo, voleva cominciare una storia nuova ma era ancora legata a pastoie che la vincolavano al suo passato. Oggi c’è sempre una differenza, anche se più moderna e ormai abbiamo consapevolezza di essere cittadini del mondo.
Nel giro di pohissimi anni la fascia costiera della Sardegna è stata devastata dal turismo; la costa ha perso la sua antica tradizione, il suo orginario aspetto. Questo è un esempio di come la scoperta di un territorio non smpre porti a vantaggi, progressi o miglioramenti. Tuttavia l’invasione turistica ha portato alla luce un patrimonio culturale enorme. Quali altri miglioramenti potrebbe portare la riscoperta dell’isola, sempre rispettando i suoi ambienti e la sua storia?
Io mi batto fortemente perché fra la Sardegna e il resto d’Italia e del mondo ci sia quella che definisco la viabilità, cioè lo scambio veloce e a buon prezzo degli uomini. Quindi aerei meno cari, navi meno care, sistemi che ci mettano in condizione di poter dialogare col mondo. E’ determinante che si acquisisca coscienza di quello che noi siamo per cercare di cambiare in positivo, soprattutto lavorando con le giovani generazioni. Siete voi il futuro. E’ con i ragazzi che io amo lavorare, proprio perché credo che il confidente ingenio di un uomo maturo si possa sposare benissimo con la baldanza giovanile, con la voglia di chi ha gli anni lunghi davanti. Ma se io non conosco il passato non posso conoscere il presente e affrontare il futuro. In Sardegna vorrei che ci fosse uno scambio continuo e costante non solo di turisti mordi e fuggi ma anche di persone che si innamorano della nostra terra e magari comprano case, ristrutturano, vanno e vengono e magari portano una ventata nuova di cultura ed entusiasmo. Così che ci si senta meno soli, perché è bello sentirsi isola ma è bello sentirsi anche mondo. In noi convive questa doppia anima.
Lei è professore ed è, come ha detto lei, il mestiere che forse più si affaccia sul futuro, in particolare perché l’insegnante oggi ha anche uno scopo educativo. Oggi il ruolo di professore ha il riconoscimento che merita?
No. Me ne sto andando dalla scuola molto arrabbiato. Se io potessi riavere il rapporto che avevo con l’istituzione scolastica, con la cultura e con i giovani e se avessi giovani come voi io rimarrei altri cinque anni, perché non me li sento. Io ne ho 36 effettivi di insegnamento, 4 anni di laurea riscattati, tanta tanta esperienza sul campo ma mi sento svilito nel mio ruolo. Primo perché la scuola e la cultura sono nella mente di questo e di altri governi rami secchi. Io ho lo stesso contratto di tanti anni fa, la vita è cresciuta, i costi sono aumentati e il mio stipendio è sempre più depresso. Anche la vile moneta è un discorso. Ma il rapporto con l’Istituzione scolastica … La scuola è diventata puramente burocratica e l’insegnante vale solo se sa fare una programmazione e al mio preside non interessa certamente del rapporto che io ho con i giovani. Questo che vedi è il rapporto che io ho con i giovani, con lo stesso entusiasmo spiego anche Leopardi, Pascoli e la storia, ma la scuola non mi fa sentire gratificato, in alcun modo. Io le soddisfazioni le trovo nei circoli culturali e nelle biblioteche, nei paesi e nelle città dove mi chiamano e dove stabilisco e intesso rapporti prettamente culturali e che partendo dalla letteratura mi fanno toccare la vita.
Eugenia Beccalli, Federica Baradello (4F)