Addio a una terra meravigliosa e solitaria

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N.ZÈ sempre dura andarsene. Non che tornare a casa mi dispiaccia, però è triste partire lasciando, forse per sempre, persone e luoghi fantastici. Vedere quasi tutto impacchettato in valigia e la stanza quasi del tutto priva di oggetti personali fa provare un senso di vuoto dentro. Ora ho davvero capito qual è la differenza tra visitare un posto standoci per un po’ e abitarci: andare via è come lasciare una seconda casa.

Anche se me l’hanno chiesto in tantissimi, non c’è una ragione razionale per cui ho scelto la Nuova Zelanda. A dir la verità ne sapevo davvero poco. È una terra sperduta in capo al mondo, l’ultimo Paese prima dell’Antartide. Si sente negli abitanti un senso di isolamento che porta tanta frustrazione per gli spostamenti all’estero quanta sicurezza. Scoppia la Terza Guerra Mondiale? Non in casa loro. Una nuova epidemia? Difficile che arrivi fin qui. È quasi ingiusto che, al contrario dei “vicini” australiani, non abbiano nemmeno animali pericolosi di cui preoccuparsi… non ci sono nemmeno i serpenti! È più probabile farsi male perché investiti da una mucca (giuro: quando sono arrivata una delle mie sorelle aveva una frattura al braccio per questo motivo).

La Nuova Zelanda è anche famosa per i suoi paesaggi mozzafiato e per gli sport estremi, è infatti tra le mete più ambite per gli amanti dell’outdoor e forse non è un caso che il primo uomo che ha scalato il Monte Everest sia stato proprio un neozelandese.

Per quanto riguarda le persone, i kiwi, come si chiamano tra loro, sono generalmente molto amichevoli, alla minima occasione attaccano bottone e alcuni non la finiscono più. Sono diventata brava anch’io nei cosiddetti “ discorsi da ascensore” (si fa per dire, qua di ascensori non ce ne sono molti) e ho iniziato ad attaccare bottone a mia volta. Parlare e ascoltare tante persone diverse e inaspettate è sicuramente nella top 20 delle cose che ho apprezzato di più qui. Si acquista sicurezza e si impara a capire meglio chi si ha intorno, diminuendo i pregiudizi. Chiacchierando un po’ con tutti mi è stato più facile capire la mentalità del posto, che è a tratti simile alla nostra e a tratti molto diversa.

Una critica che sento di dover fare ai kiwi è che hanno una vita notturna che fa pena. Auckland a parte, la sera non si esce tanto spesso, non si sta in giro. L’unica attività è andare a casa di amici a bere. Le feste sono belle, stile film americano: in casa di qualcuno con fuoco, musica, divani in giardino. Però finiscono prestissimo: in genere intorno alle 3 gli ultimi tiratardi tornano a casa. È evidente che hanno un’idea del “tardi” parecchio diversa dalla nostra. Ero scioccata all’inizio quando ho visto che mandano i bambini a letto tra le 7 e le 8. Mi spiaceva per loro prima di capire che è normale.

Invece tra quel che mi ha stupito del loro stile di vita c’è l’indipendenza economica dei ragazzi. A 15-16 aprono un conto in banca (o gli viene dato libero accesso al conto che i genitori hanno aperto per loro, in caso l’abbiano fatto), si trovano un lavoro e si pagano tutto, o quasi, da soli. Non conosco nessuno in Italia che alla mia età deve pagarsi metà, se non tutta, la retta della palestra, o che se deve fare anche solo una gita con la scuola deve pagare per sè. Ovviamente ciò accade perchè è facile trovare un impiego anche per i giovanissimi, mentre da noi è pressoché impossibile. Mi ha colpito anche il fatto che, fino a pochissimo tempo fa, la patente si prendeva a 15 anni, senza restrizioni (ora, non senza lamentele, hanno alzato l’età a 16) e ciò significa che i ragazzi da quell’età avevano la libertà di farsi viaggi in compagnia per giorni (avendo una macchina e soldi per la benzina grazie al lavoro). Ora è più o meno lo stesso, solo che i 16enni patentati devono aspettare qualche mese in più perché per i primi tempi non gli è consentito portare altri in macchina (norma che in realtà non è rispettata con troppo vigore).

Ora che sono arrivata alla fine dell’avventura mi sento di dover guardare indietro e tirare le somme di quel che è stata. Non penso che mi pentirò mai di averlo fatto e di aver scelto questo paese. Devo ammettere di essere stata anche molto fortunata perché, parlando con altri ragazzi che stanno facendo o hanno fatto la stessa esperienza, mi rendo conto che sarei potuta capitare in una famiglia peggiore che mi avrebbe fatto passare qualche momento difficile. Mi pento solo delle cose avrei potuto fare ma che non ho fatto, che per fortuna sono poche.

Consiglio a tutti, se ne avete la possibilità, di partire. Aggiungerei anche di considerare l’idea di stare tutto l’anno, anche se forse a quel punto è ancora più difficile tornare a casa.

Elisabetta Colonna (4B) – corrispondente dalla Nuova Zelanda

 

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