Quando, solo alla fine dell’ultima pagina, dopo che centinaia di esse sono passate davanti ai tuoi occhi e hanno lasciato un segno nella tua testa, quando al termine del lungo viaggio della fantasia le mani chiudono il volume con il classico gesto abituale e lo sguardo cade inconsciamente sulla copertina del libro che tieni tra le braccia, è allora che, all’improvviso, un’espressione corrucciata e un poco stupita si dipinge sulla tua incredula faccia.
Era un fumetto.
Era un dannato, stupido, colorato fumetto.
In un attimo che appare lungo quanto l’eternità stessa la tua memoria finisce ai titoli di Dylan Dog, di Asterix e del gruppo TNT, mentre provi a ricordarti come e quando sia stato possibile provare emozioni simili davanti a molte vignette disegnate. Non è mai successo. Rabbia, si, quella l’hai già provata. Tristezza, forse. Di sicuro è già capitato di divertirsi davanti a battute ironiche e divertenti, spesso era una risata amara.
Ma le lacrime?
Ecco. È un po’ di tempo che me lo chiedo ma sono arrivata alla conclusione di non essere un isolato caso patologico. Sono abbastanza certa di provare più o meno le emozioni che provano tutti, se stimolate nel giusto modo. Faccio abbastanza fatica a trovare una battuta che mi diverta davvero e ho contato un totale di quattro tra libri, film, canzoni e immagini che mi abbiano fatto veramente piangere in tutta la mia vita. Non molti.
Eppure, per qualche motivo, alla fine di quel dannato fumetto una maledetta lacrima è arrivata a farmi visita.
Si tratta della Graphic Novel (o “romanzo a volume unico illustrato a vignette” se vogliamo essere “italianizzanti” fino all’estremo) Maus, di quel maledetto genio di Art Spiegelman, l’illustratore e scrittore del volume che, a quanto pare, visto il successo editoriale che ha avuto negli ultimi dieci anni, non ha costretto solo me a provare sentimenti. Registrando su carta i racconti del padre, sopravvissuto all’Olocausto, Spiegelman ricrea i momenti drammatici della Shoah, riproducendo fedelmente ogni istante che il padre riesca a ricordare.
Nulla di nuovo quindi: di film o documenti sul massacro nazista di ebrei, zingari, omosessuali, avversari politici e quant’altro ne abbiamo a bizzeffe. Eppure, per qualche motivo, Maus lascia il segno. Sarà forse il tratto semplice e lineare con il quale ogni personaggio assume una sua personalità. Sarà forse il disegno pulito contrapposto all’assurda brutalità della deportazione e della fuga dei perseguitati dal nazionalsocialismo. Sarà forse la raffigurazione di ogni essere umano come un animale, così che gli ebrei divengono topi, i nazisti sono gatti e i polacchi sembrano grassi maiali. Sinceramente non ne ho idea. Quello che so è che quelle dannate pagine non ti lasciano fino a che il volume non è completamente finito, passando attraverso storie d’amore, ragionamenti politici e filosofici e, per fortuna o purtroppo, tanta devastante realtà storica, che porta ad una conoscenza approfondita della storia vissuta e che, con una possente semplicità, dove i fatti vengono narrati senza secondi fini o doppi sensi ma con la schiettezza che solo la verità può avere, compiono una delle più grandi testimonianze del periodo storico più atroce che il nostro mondo possa ricordare.
Non ho dubbi nel porre quest’opera alla pari di grandi film come Il Pianista o La vita è bella e non esito un solo secondo a paragonarla a libri e testimonianze come quelle di Se questo è un uomo o Il diario di Anne Frank. Non si tratta semplicemente di gusti né certo è presunzione: il punto è che Maus non solo rasenta la perfezione ma entra a gonfie vele nel grande oceano dell’arte.
Carlotta Pavese (4D)