Partirono in 26. Piccoli, ingenui e ansiosi di scoprire ciò che li aspettava. Avevano cinque anni davanti durante i quali gli sconosciuti che li circondavano sarebbero diventati le persone meglio conosciute.
Ancora non potevano immaginare quanto tempo avrebbero passato chini sui dizionari di greco; quanti album avrebbero potuto riempire con le loro foto; quanti caffè avrebbero preso a quel bar, con la pioggia e con il sole; quante volte sarebbero corsi alla fotocopiatrice per premere il tasto “riduci”; quante frasi in spagnolo avrebbero esclamato davanti ad un confuso interlocutore.
Se la loro storia fosse un libro di racconti, il primo capitolo sarebbe dedicato al primo Natale: riempirono i banchi di dolci e regali, ballarono a tempo di musica festeggiando la fine del primo trimestre insieme. Voltando pagina domina l’Acropoli di Atene, retroscena di cinque giorni a base di yogurt, kebab “sansa scipola”, cambi di camera al grido “in your rooms!”…
Continuando a sfogliare si legge del primo viaggio insieme, durante l’estate, alla fine della quale le cose erano cambiate. A settembre sui banchi odiati e amati c’erano due visi nuovi a sostituire i quattro che mancavano all’appello. Spronati da un professore ancora sconosciuto, portarono in scena la parte migliore del loro libro, arricchendola con visioni futuristiche e tante risate. Ventitidue quindicenni recitarono, tra “Bunker come Banchi”, immaginandosi adulti ma rimanendo giovani.
Quello fu anche l’anno della loro prima autogestione: tre giorni per (ri)scoprire il Convitto, per rimanere uniti e dare spazio alla loro vena artistica attraverso arditi video underground.
Meno tre, più uno: così risultava il conteggio della classe visto su moderni registri. Il terzo anno scoprirono cosa vuol dire aprire, e farsi aprire, le porte di casa a, e da, sconosciuti. Esplorarono una diversa realtà, quella di una piccola cittadina polacca col nome Zamosc. Mangiarono pizze su fredde spiaggie, giocarono a “smierdish” fra increduli passanti, furono colpiti da inaspettati colpi di fulmine e decisero che non avrebbero più rimesso piede in un ostello polacco.
Il quarto capitolo s’inizia con soli tredici protagonisti: alcuni persi per strada, ben in sei in giro per il mondo, per imparare l’inglese, ma soprattutto alla ricerca di nuove esperienze. Recuperati tutti i viaggitori (meno uno) ballarono “Waka Waka” tra Italia e Spagna, accolsero i tanto attesi diciott’anni tra brindisi, torte e tanto cercati regali, crearono bische di briscola negli intervall mai abbastanza lunghi.
Ci si avvicina alla fine, ultime pagine di un tomo ormai spesso. Accolti da cupe parole, come studio, impegno ed esami, riuscirono a non abbattersi concentrandosi solo sul presente. Se all’inizio dell’avventura il termine più usato è “primo”, questo fu l’anno delle ultime cose: l’ultima gita (a Lisbona), l’ultimo Natale, le ultime astuzie per copiare, l’ultima foto per l’annuario, l’ultima spiegazione sul Guidorizzi…
Partirono in 26, arrivarono in 18. Ignari di dove fosse l’arrivo e in cosa consistesse non hanno ancora scritto la parola FINE.
Anna Aglietta e Sofia D’Angelo (5C)