All’alba del 2012 si può a buon ragione affermare che la crisi ha colpito l’Italia sotto ogni aspetto: certamente quello economico tocca molto da vicino ognuno di noi, ma il problema non si ferma qui.
L’Italia sta regredendo in maniera clamorosa anche dal punto di vista culturale. Dimentichiamoci per un attimo di Pompei, che inesorabilmente e impotentemente assiste alla rovina dei propri edifici; cerchiamo di scordare che il Ministero dell’Istruzione ha operato numerosi tagli di orario/docenti/risorse/denaro alle scuole di ogni genere e grado; fingiamo di non aver assistito al dimezzamento dei fondi dedicati a musica e spettacolo. In fondo tutto ciò è dovuto ad una necessità sempre maggiore di soldi che vadano a riempire l’enorme porcellino destinato al risanamento del debito.
Fin qui abbiamo ottenuto delle cause che, ben lungi dal giustificare gli effetti, per lo meno li spiegano. Ma in che modo si può difendere o discolpare un uso dell’italiano sempre più sgrammaticato e orrendo? Oppure una conoscenza della cultura sempre più tendente al vuoto cosmico?
Sembrerò di certo una pedante maestrina nel voler correggere i congiuntivi sbagliati, nel cercare di ribadire la banale distinzione fra “gli ho detto” e “le ho detto” oppure ancora nell’intraprendere l’inutile battaglia contro gli apostrofi, quei maledetti apostrofi che compaiono quando non dovrebbero esserci e diventano timidi quando è necessario che vi siano. Ebbene sì, sono una pedante maestrina che prova la sgradevole sensazione delle unghie affilate sulla lavagna a sentire certe boiate!
Il punto, tuttavia, non è ancora stato centrato: quest’autunno, in occasione della grande caccia ai libri scolastici, ho lavorato come aiuto-commessa presso un piccola libreria in centro. Dire che mi sono capitati fra i piedi certi elementi a dir poco somari significherebbe sminuire la faccenda: dal titolo del “Don Quijote” scritto in ogni modo possibile, al celeberrimo libro di Voltaire intitolato “Candida” ho spesso sospettato di esser la vittima ignara di qualche sketch televisivo.
Ciò nonostante, il primo premio per la furbizia l’ha vinto un ragazzo che neppure ricordava bene se facesse III oppure IV liceo (o magari entrambe): alla richiesta della Divina Commedia, edita da Zanichelli, sono stata così ingenua da chiedergli chi fosse il curatore dando per scontato che sapesse cos’è un curatore. La risposta è stata molto pronta e con la sua voce da perfetto tamarro ha esordito con: “Oh, aspé che c’è sul foglio … Ecco, è un tipo che si chiama D. Alighieri”.
Caro “tipo che si chiama D. Alighieri”, so che ancora in questo momento ti stai rivoltando nella tomba chiedendoti chi te l’abbia fatto fare di scrivere questo malloppo di 14’233 versi, ma d’altronde me lo sono sempre chiesta anche io.
Certo, ogni generalizzazione è sbagliata, e sarebbe sbagliato pensare che questi errori siano diventati la regola nazionale dello “studente-modello”, ma forse, parafrasando D’Azeglio, “abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo studiare l’italiano”.
Giulia Porcellana