Una vita senza amore non esiste. Non perché una vita senza amore non sia valida, ma perché è impossibile vivere senza incontrare almeno una delle sue infinite forme.
L’amore protagonista di tanta letteratura, di tanta arte, destinato ad essere eternamente idealizzato o distorto, è senza dubbio quello che lega due persone che fino a qualche momento prima non si conoscono neppure. Bisogna però ammettere che sovente non è nemmeno fonte di piacere, anzi. Dunque, cosa ci rende così legati ad un sentimento che potenzialmente è tanto doloroso? Del resto, la cruda verità è che un amore come quello di Filemone e Bauci può esistere solo nel mito. È inevitabile che l’ultimo attimo di un qualunque amore –realizzato o meno– sia permeato di dolore. Un amante è costretto ad esalare l’ultimo respiro con la consapevolezza che la sua morte addolorerà la persona che gli è più cara; all’altro non rimane che condurre una vita vuota. Quindi perché desiderare questo amaro sentimento, conoscendone già le drammatiche conseguenze?
Gli epicurei, qualche secolo fa, parlarono dell’amore come un male incurabile, sovvertendo canoni che ci attanagliano ancora oggi. E la scienza stessa, disciplina non esule dalla curiosità verso un’indagine sull’amore, talvolta ha provato a dare loro ragione. Iniziando da Freud, strettamente interessato a studiare sessualità e amore dal punto di vista psicologico, passando per Kinsey, che introdusse indagini sul tema in termini sociologici, gli studi scientifici odierni condotti a riguardo sono numerosissimi. Una larga fetta di questi si occupa di analisi biochimiche, del legame fra la produzione di ormoni come serotonina e ossitocina e di attività neuro-cerebrale. Ma non è tutto.
Nel 1999 la psichiatra Marazziti si occupò di una ricerca che aveva il fine di individuare eventuali correlazioni fra pazienti affetti da disturbi ossessivo-compulsivi e persone innamorate. L’intuizione che aveva portato a condurre tale esperimento scaturiva dalla definizione stessa di “innamorato”, descritto dalla professoressa come colui che, nella fase più profonda della sua condizione, sviluppa una vera e propria ossessione nei confronti della persona amata. Attraverso semplici analisi del sangue dei suoi pazienti rilevò una notevole carenza di serotonina. Un risultato simile a quello verificato nei soggetti “sani”, ma innamorati: il loro livello di serotonina era ampiamente sotto la media – vien da sé pensare che gli innamorati sono dei malati che ancora non sanno di esserlo. Analisi successive dimostrarono che tendenzialmente questo fenomeno si riassorbe nel tempo, subito dopo il periodo di infatuazione iniziale.
Il cervello però non è l’unico organo del corpo umano che risente delle sofferenze d’amore. La cardiomiopatia di Tako-Tsubo, per esempio, è “una sindrome caratterizzata da disfunzione sistolica regionale acuta del ventricolo sinistro, frequentemente correlata a stress psicofisico acuto, e generalmente reversibile”. Ciò che la contraddistingue da un comune infarto è che sia dovuta ad una fatica cerebrale, emotiva, tant’è che anche persone in salute possono patirne. In sostanza, i suoi sintomi la rendono pressoché indistinguibile da un attacco cardiaco; non a caso è comunemente chiamata “the broken-heart syndrome”, letteralmente “sindrome del cuore spezzato”. Il dato incoraggiante è che, a quanto pare, ad un episodio di sindrome del cuore spezzato, si sopravvive e si guarisce. Completamente. Nel senso che persino attraverso le più accurate analisi mediche, se si permette al tempo di svolgere il suo ruolo riparatore, non si trova più alcuna traccia dei danni subiti dal cuore.
Ecco, quindi questi dolori non sono permanenti. Ragion per cui dobbiamo dedurre che semplicemente non possiamo fare a meno di amare, in quanto sebbene le fatiche che l’amore porta con sé siano molte, non sono durature e, nella migliore delle ipotesi, non sono superiori alla felicità portata dall’innamoramento. Ne consegue che la proposta epicurea di ricercare la felicità rigettando l’amore, per quanto efficace a parole, nel concreto è fallace. A dimostrazione di questo, si potrebbe pensare all’aneddoto sulla fine di Lucrezio. L’autore latino così convinto della bontà delle tesi epicuree da dedicare loro un’intera opera, che si toglie la vita per le pene d’amore, senza riuscire a mettere in pratica gli insegnamenti del maestro. Solo una storiella? Quasi sicuramente. Ma ciò non toglie che l’aura leggendaria dimostra come già nell’antichità gli uomini fossero consapevoli di quale sia il prezzo da pagare per l’amore. Prova dell’incapacità umana di non amare, nonostante la consapevolezza altrettanto umana della sofferenza che l’amore porta con sé.
Virginia Giaquinta