Ci sono delle cose che non si possono raccontare davvero, totalmente e sinceramente. Soprattutto se lasciano una traccia ancora calda sulla pelle. Soprattutto se si tratta di guerra. Soprattutto se a raccontarle è un americano.
Troppa consapevolezza (paradossalmente ancora troppo poca) ha stravolto l’Occidente negli ultimi decenni perché lo spettatore medio possa davvero credere che tutti gli americani siano buoni e tutti coloro che vivono più a est del 20° meridiano siano delle bestie senz’anima. Purtroppo, questa categoria di persone, ha la capillare capacità di mettere radici ovunque, anche dove regnano le stelle e le strisce. Ma non è questo che emerge da American Sniper e, diciamolo chiaramente, nel suo buonismo è aiutato dai tempi: troppo facili i paragoni con i recenti massacri perpetrati dall’ISIS, indipendentemente dalla non pertinenza del parallelismo.
Visto che si pretende di fare della Storia (perché Chris Kyle è storia), allora andrebbe fatta come si deve. E se da un lato la figura dello straordinario cecchino e patriota ne esce con tutte le problematiche e i meriti che a quest’uomo vanno assegnate, dall’altro il contesto della guerra sembra una favola per bambini, dove il Lupo è cattivo perché sì.
Quasi trent’anni fa il sergente Hartman urlava: “Dio ci si arrapa con i marines! Perché noi ammazziamo tutto quello che vediamo! Lui fa il suo mestiere, noi facciamo il nostro! E per dimostrargli il nostro apprezzamento per averci dato tanto potere, noi gli riempiamo il cielo di anime sempre fresche! Dio è arrivato prima del corpo dei marines e quindi a Gesù voi potete offrire il cuore, ma il vostro culo appartiene alla nostra arma!”. Ma era satira. Coraggiosissima satira contro quel Vietnam che l’America ha faticato tanto a digerire. A Kubrick sarebbero venuti i capelli dritti se avesse visto oggi la medesima scena in chiave non solo seria, ma esaltata. Perché quando si esce dalla sala, si vorrebbe avere sotto mano una bandiera degli States per avvolgercisi tutti. E questo, nel 2015, non è giusto e non è sano.
Il pubblico medio fuori dal cinema è precipuamente maschile, di età varia ma con un picco tra i 16 anni circa e i 30. Fermo un ragazzo ad occhio e croce diciottenne per fare qualche domanda:
– Come mai hai scelto questo film? (Questo mese ci sono molte valide alternative in sala)
Perché ha avuto un sacco di nomination e poi tratta di un argomento sul quale credo si debba riflettere.
– Per caso sei un videogiocatore? Pensi che questo possa averti ispirato a guardare il film?
Sì, gioco a diversi “sparatutto”; nel gioco spesso interpreto il ruolo del cecchino e appena ho visto il trailer mi sembrava solo un film d’azione all’americana; informandomi mi è sembrato più serio.
Gentilmente, mi concede ancora un po’ del suo tempo all’uscita:
– Secondo te è un film realistico?
Sì, tanto che ad alcune persone potrebbe anche dar fastidio.
– Dopo queste immagini, pensi che ti arruoleresti per andare in guerra se si presentasse l’occasione?
Sì, anche se l’avevo già deciso in precedenza; vedere con quale facilità possono morire i miei compagni ha rafforzato la mia volontà di partecipare.
Piccola divagazione (ma poi torno sul sentiero, promesso): nel 1600 Cervantes si fece moltissimi problemi durante la stesura del Quijote e delle Novelas ejemplares. Perché? Perché all’epoca la letteratura era considerata un’esperienza formativa di primaria importanza: leggere delle esperienze di Alonso Quijano voleva dire vivere le esperienze di Alonso Quijano; leggere di un amore impuro significava farne esperienza. Lo scrittore spagnolo e i suoi contemporanei europei scrissero più righe di giustificazioni e spiegazioni che non opere letterarie vere e proprie, perché avevano preso coscienza del fatto che dalla loro penna derivava una responsabilità incancellabile, che andava ben oltre un divertimento passeggero. Oggi, più ancora della letteratura, è il cinema a doversi assumere delle responsabilità imprescindibili verso un pubblico vastissimo e sempre più passivo nei confronti della “versione ufficiale”.
Se Clint Eastwood e Bradley Cooper fossero rispettivamente un pessimo regista e un pessimo attore, il problema non si porrebbe, ma non è così: entrambi sono semplicemente straordinari in quello che fanno e proprio per questo ci sarà qualcuno che uscendo da un cinema col fuoco negli occhi avrà la sensazione che sparare ad un bambino di nove anni con una granata in mano alla fine non sia poi una tragedia, perché tanto Chris Kyle ha detto: “I was just protecting my guys, they were trying to kill… our soldiers and I… I’m willing to meet my Creator and answer for every shot that I took.”
Eugenia Beccalli