Associazione Italiana Zingari Oggi

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La visita nella nostra classe di Barbara, dell’associazione AIZO, ci ha messo a contatto con la reale situazione degli zingari in Italia, che è estremamente difficile e ingiusta, tanto che l’Unione Europea ha richiamato recentemente più volte il nostro paese a una gestione più corretta di questa emergenza umanitaria. Con il termine “zingari” (o “gitani”) si indicano genericamente popolazioni di origine asiatica in cui si possono distinguere diversi gruppi, dotati di una propria cultura e  impegnati in alcuni tipici mestieri (giostrai, artigiani del rame…). Essi sono anche definiti genericamente “nomadi”, sebbene siano – in una società che ostacola la mobilità non organizzata –  sempre di più stanziali. La loro bandiera, con una striscia azzurra, una striscia verde e una ruota indiana nel mezzo, porta però ancora al proprio interno il simbolo stesso del viaggio: la ruoto di un carro, che è anche il sole e il tempo circolare che rievoca le origini indiane.

I due gruppi di zingari più presenti in Italia sono i Rom e i Sinti. Purtroppo,  i cosiddetti “campi nomadi” alle periferie della grandi città vengono citati dalle cronache solo quando gli incendi improvvisi nelle baracche o nelle roulotte provocano vittime, soprattutto bambini, o quando è in corso uno sgombero.  Le condizioni dei campi sono in realtà un problema di ampie proporzioni, ben noto al Governo e alle amministrazioni locali.  Barbara ha sottolineato che molti soldi sono spesi per gli sgomberi dei campi abusivi (i campi legali sono pochi e piccoli, quindi insufficienti), invece che per investimenti sui servizi e l’integrazione. Capita addirittura, che alcuni italiani utilizzino questi campi per scaricare abusivamente rifiuti, accentuando la situazione di illegalità e peggiorando le condizioni igieniche dei siti.

Torino è, fra le città italiane, una delle più tolleranti (i nomadi, infatti, contano qui fra le 2.500 e le 3.000 presenze) e anche fra le prime (1970) ad aver conosciuto questo afflusso. Non c’è stata però la volontà di passare dalla situazione dei campi abusivi a campi finalmente dignitosi e legali, forniti di servizi adeguati. “Tollerare” non basta: bisogna fare. Naturalmente, non si tratta di compiere un semplice intervento umanitario, ma di realizzare un processo equilibrato di integrazione, che rispetti le diversità  delle minoranze e consenta loro di vivere in un quadro di regole civili. Non va quindi cercata l’assimilazione, che sarebbe l’ingiusta pretesa della cancellazione dell’identità di un popolo e di una cultura per innestarli in una diversa civiltà, ma l’integrazione, che richiede tempo, impegno e anche risorse. I problemi sono molti, perché bisogna vincere sia i pregiudizi degli italiani sia le resistenze degli zingari: far frequentare regolarmente la scuola ai bambini è difficile perché non credono nella sua utilità, far lavorare gli zingari adulti con gli altri (loro li chiamano “gagé”) e abituarli a un’attività regolare richiede la pazienza di adattamenti e compromessi. Ma questa è la strada giusta, e le associazioni di volontari che lavorano a favore di queste comunità cercano di costruire ponti di collaborazione  preziosi.

   Sono rimasta affascinata dalle caratteristiche della cultura zingara, che è – nelle sue origini – orgogliosa e vitale. La “gitanilla”, il ballo tipico di questo  popolo, ne è un esempio. Il terribile sterminio subito dagli zingari sotto il nazismo hitleriano (una mostra in corso a Torino documenta questa tragedia) ci deve far riflettere sul punto a cui possono portare i razzismo e l’intolleranza.

 

Elena Blazina (2C)

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