Dalle fontane di Teheran sgorga acqua scarlatta. Per un giorno, tre settimane fa, la silenziosa protesta degli artisti iraniani ha fatto dell’oro blu il sangue di Mahsa Amini, 22 anni, che i “poliziotti morali” hanno arrestato lo scorso 13 settembre, rea di non portare correttamente il velo.
Picchiata a sangue, si è spenta dopo tre giorni di agonia in ospedale. Le autorità iraniane si sono presto dichiarate innocenti: Mahsa sarebbe morta per le “conseguenze di un’operazione al cervello per un tumore all’età di otto anni”. Ciò non è bastato, tuttavia, a fermare il fiume di proteste che da sei settimane fa della Repubblica islamica il teatro di contestazioni seconde solo alla Rivoluzione del 1979.
Il codice penale islamico iraniano non lascia dubbi: se sei iraniana e hai più di sette anni, hai l’obbligo di mostrarti velata. Se ne hai più di nove e disubbidisci, se dal tuo velo spunta una ciocca, i poliziotti morali appostati all’uscita della tua scuola, della tua università, del tuo posto di lavoro possono arrestarti e rinchiuderti, da dieci giorni a due mesi. Se poi pensano che portando i pantaloni o le maniche corte si offenda la pubblica decenza, sono previste anche 74 frustate. Il codice penale islamico iraniano parla chiaro: non ci si può aspettare che il Paese rispetti il principio di non discriminazione ratificato con la Carta delle Nazioni Unite e con il Patto internazionale sui diritti civili e politici.
Le nostre coetanee che si fanno ammazzare nelle piazze iraniane sventolano violentemente quel velo che non è stato il Corano a imporre, ma l’uomo. Le tradizioni l’hanno caricato di un peso identitario tanto quanto politico che la “donna iraniana / oggetto di propaganda” non ha più la libertà di rifiutare. Le nostre coetanee che si fanno ammazzare nelle piazze iraniane gridano, con tutto il fiato che – chissà per quanto – resta loro: Zan Zendeghi, Azadi – donna, vita, libertà. Ed ecco che un vecchio slogan curdo lancia la bomba dell’intrinseca relazione tra libertà della donna di disporre liberamente del proprio corpo e libertà della società intera.
L’intera società non si dimostra sorda. Non è una “rivolta delle donne”: bruciare il velo è come bruciare una bandiera. Così da Teheran al Kurdistan al Belucistan, un sentimento di unità anima un flusso di manifestanti senza leader né coordinamento. Tra 80 milioni di abitanti divisi da profonde differenze etniche scendono in piazza adolescenti come Abolfazl Adinezadeh, 17 anni e 24 proiettili nello stomaco, o anziani come Gohar Eshghi, 80 anni e un figlio blogger ucciso dalla polizia.
Studenti universitari, lavoratori dell’industria petrolifera, insegnanti: l’Iran ha bloccato Instagram, Whatsapp, i VPN, ha rallentato Internet, ma non può ancora impedire loro di scendere in strada. Dopo aver inutilmente lanciato un appello al dialogo al grido di Hamvatan! Bia ba ham harf bezanim! – compatrioti, parliamoci!, i pasdaran si sono ritrovati addosso milioni di “nemici giurati della Rivoluzione islamica” autori di “maligni complotti” che esercito e polizia dichiarano di voler “distruggere fino all’ultima goccia di sangue e fino all’ultimo respiro” sotto la Guida suprema di Ali Khamenei, a cui rinnovano fedeltà.
Da quando tutto è iniziato, i basiji – paramilitari della repressione – hanno mietuto ufficialmente circa 400 vittime e arrestato almeno 20mila persone, “violentando” la città di Zehdan il 30 settembre scorso – “il venerdì di sangue” – con l’uccisione di almeno 96 civili.
Ma – come recita uno striscione presente ad una manifestazione – cannoni, carri armati e pistole non funzioneranno più. La violenza, la censura non basteranno a fermare la rivolta alla teocrazia islamica, governo che Minoo Mirshahvalad, ricercatrice esperta in diritto sciita, immigrazione e rapporti di genere, definisce “la più brutale truffa che l’essere umano abbia mai creato”. Il patriarcato – implicito nel riservare ai soli uomini il ruolo di rappresentanti del dio governatore – rende inaccessibile alle donne qualsiasi partecipazione attiva alla vita comunitaria.
Oggi in Iran prende forma una richiesta di democrazia contro ogni autoritarismo: Morte all’oppressore, che sia un re o un leader supremo. Una rivolta senza leader e senza nome che si nutre di quella parte di società che in 40 anni si è spesa per il rispetto di diritti civili e politici e oggi canta che Teheran è diventata una prigione, mentre il carcere di Evin – prigione di intellettuali, attivisti, avvocati – un’università. È la società di uomini e donne che hanno il coraggio di gridare in faccia agli assassini delle loro figlie, figli, mariti, mogli, genitori, agli usurpatori della loro libertà, identità, indipendenza: Boro gom shod! – Andate a quel paese!.
Irene Scali