Il sangue non permetteva di proiettare lo sguardo dentro a quel foro; posto in pieno capo costituiva l’evidente prova del suo rapido decesso causato da terzi. Per quanto riguarda la provenienza del piccolo ferro mortale, si trattava senza dubbio dell’arma di servizio, una Colt M1911 che Curt Stevenson aveva avuto l’occasione di adoperare solo in qualche situazione di particolare gravità e di cui si erano perse le tracce. Era infatti per questo motivo che attorno al brillante agente di polizia ormai inerme si radunavano confusi gli sguardi di compagni di lavoro forse speranzosi di trovare un movente o perlomeno un sospettato. Ma più si tormentavano meno erano in grado di intravedere pretesto o persona che avesse portato alla scena di fronte ai loro occhi.
Il caso del suo omicidio mancava di parecchi fattori, non si disponeva nemmeno di una famiglia da informare; Curt era sempre stato misterioso, un uomo solitario la cui vita consisteva pressoché totalmente nel lavoro. Quarantasette anni, un metro e ottanta, un’occupazione stabile e un affitto da pagare, questa l’apparentemente semplice vita dell’uomo che il 16 luglio 2007 vide sparare la sua pistola per l’ultima volta … Contro se stesso.
Il prato del Tollymore Forest Park era ormai abituato alle Nike di Raymond che lo attraversavano quotidianamente, ora correndo ora camminando. Il suo nuovo lettore MP3 mancava di brani, costringendolo ad ascoltare la radio.
“Correre nel parco alle sette del mattino era più piacevole prima che settembre arrivasse”, pensò tra sé e sé.
Ancora non sapeva che pochi anni lo separavano dal giorno in cui il suo lavoro avrebbe occupato quelle mattinate all’aria aperta sostituendole con pile di documenti su una scrivania.
Il notiziario comunicava per l’ennesima volta che la caccia all’assassino a Cork era ancora in via di svolgimento. Raymond rallentò il passo prestando attenzione alle parole metalliche dello speaker. Si chiedeva quando si sarebbero arresi, desiderava profondamente che lo facessero. Finalmente, dopo una dose di inutili pubblicità, la musica tornò a fargli compagnia con un brano degli U2. La sua corsa gli permetteva di ammirare il verde attorno a lui; il Tollymore Forest era caratterizzato da molte varietà di piante tanto naturali quanto artificiali: si potevano ammirare diversi alberi esotici o camminare lungo il fiume Shimna. Il cielo ancora estivo era quasi un ritratto della spensieratezza di coppie e famiglie libere di concedersi una bella giornata lontano dal caos urbano fatto di traffico, smisurate folle, truffe e crimini come quello del 16 luglio.
Un cestino da picnic stava in mezzo ai tre ragazzi e l’altro, ma anche il motivo per cui si erano radunati all’ora di pranzo.
“Allora?”
“Niente, ancora niente.”
“Fossi in te mi sarei già arreso.”
“Non lo farei mai, è una promessa.”
Raymond si limitava a un panino e tanta frutta, era il suo modo personale di mantenersi in forma. Guardava Tim e Spencer contendersi l’ultimo muffin riflettendo sui due vecchi amici. Sorrise pensando ai vecchi tempi, quando ancora non si sentiva vuoto e incompleto, prima che lei andasse via, che sparisse nel nulla. Erano soliti passare insieme interi pomeriggi, passeggiando e parlando del più e del meno, di progetti per il futuro, sembravano inseparabili. Ray conobbe i due ragazzi alla fine delle medie, durante un campo estivo. Si trattava di un chiaro ricordo, dato che avevano tentato di fuggire; tuttavia il solo esito fu una settimana di punizione in cui tra una commissione e l’altra iniziarono a conoscersi meglio per poi diventare grandi amici. Per quanto riguardava Eve, le iniziò a parlare quando si accorse che frequentavano lo stesso corso di fotografia; allora entrambi avevano superato da poco i vent’anni. Ray sapeva che lei nascondeva qualcosa, un dolore profondo che in passato l’aveva cambiata. Ma in tanti anni non aveva capito di cosa si trattasse.
“È sempre stata strana.” Tim parlava mangiando.
“Non fino a questo punto” puntualizzò Spencer.
“Tornerà”, di questo Raymond era certo.
“Sicuro, Ray, e poi magari sparirà ancora.”
“E io l’aspetterò ancora.”
“Hai trent’anni, non puoi passare una vita dietro a lei.”
“Ne ho tutti i motivi, Tim, lo sai.”
Spencer si sentiva escluso:
“Certo, è una brava ragazza. Una gran testarda, ferma sulle sue opinioni. Una tosta, non mi sorprende che tu abbia scelto lei.”
“Esattamente come lei ha scelto me, per questo so che tornerà.”
Per l’agente Daniel Barklet il caso Stevenson non era altro che un rompicapo, un’infinita ricerca priva di esiti. Aveva interrogato ogni fuorilegge che avesse avuto modo anche solo di incontrare Curt, senza ricavarne nulla. Forse il gesto di un folle, un crimine perfetto, o meglio perfettamente insensato. Come sarebbe stato insensato procedere con l’indagine. Barklet aveva trentasette anni, era un uomo vivace e amava giocare a golf. Da lì a poco avrebbe lasciato la polizia per occuparsi di un’attività familiare, un’armeria a Belfast. Con l’improvvisa morte dello zio, lui era l’unico che se ne potesse occupare. Si sarebbe sposato con Amanda Lewis, la sorella di un fidato cliente. Una bella vita, forse. Sicuramente meglio di quella della povera Amanda, costretta a subire ogni sera dettagliate osservazioni e ripetitivi dubbi sul 16 luglio 2007. Le parlava delle ricerche che lo avevano tenuto sveglio per tante notti consecutive, narrava di interrogatori ambigui ma privi di utilità e chiedeva quale fosse la sua opinione. La futura moglie gli dava sempre un bacio sulla fronte prima di ripetergli che ormai si sarebbe dovuto rassegnare.
Raymond era finalmente riuscito a prendere sonno quando sentì dei passi avvicinarsi alla sua stanza. Silenziosamente si alzò dal letto e rimase immobile fissando il soffitto, nel tentativo di percepire meglio il suono. La porta che dava sul salotto non era totalmente chiusa, il che gli permetteva di dare un’occhiata. Sentì il cuore gelare quando intravide una pistola nei pantaloni dell’individuo che si accostava alla porta. L’aveva vista e rivista in televisione, una Colt M1911, la Colt M1911. Il sudore che colava sulla sua fronte somigliava forse leggermente al sangue disperso di Stevenson. Ray temeva ora anche di respirare troppo rumorosamente. Ma nascondersi sarebbe stato inutile, l’intenzione di quelle Lumberjack era senza dubbio quella di oltrepassare la porta, forse con l’intenzione di far impazzire Barklet con un secondo crimine perfettamente insensato. Una mano spinse piano la porta.
“Sì, certo, ti hanno stuprata. Le stuprano tutte al sabato sera? Forse è meglio se vai a casa, domani la sbronza passerà.”
Eve mormorava nel buio della macchina:
“Certo, domani. Credo che di domani ne siano passati parecchi prima che quello definitivo arrivasse. Ingenuo mondo, forse non sai che quando la tua giustizia fallisce è la vendetta a farsi sentire? A nessuno passò forse per la mente che quell’uomo fosse tutt’altro che buono? Probabilmente quando smetterai di farti condizionare dal tuo ottuso pregiudizio riuscirai ad arrivare a me, ma fino ad allora voglio godermi la perdita di questo peso. Chissà se quella pallottola ha colpito il lato più marcio e sgradevole del cervello di una bestia che non era da meno. Sarebbe soddisfacente sapere di aver distrutto l’origine delle sue azioni, il luogo da cui erano partiti determinati comandi. Perché se proprio ci si deve aggrappare alla legalità, il grandissimo Curt avrebbe dovuto essere condannato quel sabato sera lontano anni, ormai. Ma chi darebbe mai retta a una ragazzina malridotta in minigonna? Una sbronza, certo.” Si concesse una piccola risata guardando la pistola che aveva ancora nei pantaloni. “Forse è ora di tornare da Ray.”
Diana Ciobanu (1B)