Canto. Lamento. Luce.

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Guercino, La morte di Didone, Roma, Galleria Spada, 1631-Morte?
-Morte. Sì, cara sorella: morte. È questo il mio destino, anzi, il nostro: io ho solo scelto di rendere più breve quest’agonia chiamata vita. Quando venivo intessuto nel seno di mia madre e nessuno, fuorché gli dei, conosceva il dolore dei miei patimenti, già era scritto che la Moira tagliasse il filo della vita.
Ed ora, o sorella, non per costrizione ma per scelta rinuncio alle mie aurore venture: ho vissuto troppo. Ogni respiro è lancia che trafigge. Ogni sguardo si posa su dolori e mestizia. Ogni odore ricorda l’amato crudele. Quanto stolta a non ardere col marito sui cedri del Libano! Quanto sciocca a non aver affrettato allora il mio ultimo alito. Ho taciuto a lungo, ma è giunta l’ora della mia ira, il tempo della mia vendetta e adesso voglio sbuffare come un bufalo, gridare come una partoriente, squarciare i secoli col sangue del mio ardore. Non piangere, sorella mia, perché è finito il dolore. Elissa va.

-Cos’hai fatto, cara sorella? La luce non è più con te. Il vivente rende gloria ai numi, non chi scende nella fossa, ma per te né dei, né Patria: solo i tristi inganni di Amore. Che ne sarà della nostra Città? Quale il destino del nostro popolo?
A dolore si aggiunge dolore, a pianto pianto e i nembi riversano le loro acque nei letti colmi dei fiumi. La Fama è crudele, il tuo destino è noto. La speranza nell’uomo è vana: svaniscono i suoi disegni nel pulviscolo. Gli dei crudeli e giusti non avranno compassione: né Giove, né Minerva e neppure Venere. La tua dimora sarà nei meandri d’Ade. Verrà, forse, un giorno nuovo per te?
La mia preghiera è al Dio Ignoto, sua la mia Speranza.

Valerio Pace (4D)

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