Coffee House(s)

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Apri gli occhi.
Ti stiri, sbadigliando soddisfatto.
Scosti le coperte gentilmente, conti da cinque a zero et voilà, sei in piedi.
Ti alzi lentamente, vai verso il bagno, apri l’acqua e la regoli.
Ti sciacqui la faccia, chiudi il rubinetto e ti asciughi con una morbida salvietta di spugna grigia.
Ti giri, esci dal bagno chiudendoti la porta alle spalle – a Mary non piace che rimanga aperta – e scendi le scale scricchiolanti di vecchio legno a passi rapidi.
Ti ritrovi in cucina, superi senza guardarla la bustina del medicinale schifoso che prendi da un mese a questa parte e ti dirigi verso la ben più lieta visione che ti ha convinto ad alzarti dal letto: la caffettiera.
Sviti la camera di bollitura, togli il filtro e la riempi d’acqua.
Rimetti il filtro, lo riempi della finissima polverina qualità arabica (ormai non sopporti più il caffè brasiliano), riavviti la moka e, dopo aver acceso il gas, metti il tutto sul fuoco.
Sospiri, poi ti riattivi.
Mentre aspetti che il caffè sia pronto, stendi una candida tovaglia di lino sul tavolo e vi appoggi sopra due tazze sui rispettivi piatti, due tazzine sui rispettivi piattini, di fianco due cucchiai, le fette di pane tostato, la Nutella, il latte, due bicchieri e il succo d’arancia fresco che ieri sera ha fatto Mary.
Riempi le tazze con il latte, vi aggiungi il vecchio caffè che sarà presto sostituito da quello nuovo e le metti a scaldare nel microonde.
Afferri la bustina di antibiotico dal davanzale e la metti vicino alla tua tazza.
La caffettiera fischia: la prendi con il guanto protettivo e versi il caffè nel piccolo thermos di metallo argentato.
Aggiungi due pastiglie di dolcificante, chiudi e agiti con veemenza.
Tutti i tuoi gesti sono precisi e celeri, studiati e testati dall’esperienza.
Stai per sederti a tavola quando, sbuffando, cammini alla svelta verso la porta di casa e giri la chiave nella toppa.
Apri, respiri una boccata d’aria fresca e sorridi al sole di quella domenica mattina tanto tranquilla e perfetta.
Saluti la vicina pettegola e il relativo marito scansafatiche – i pargoli pestiferi puoi anche evitare – e poi lo vedi.
Lì, sullo zerbino, ancora confezionato, c’è il giornale.
Lo prendi e richiudi la porta dietro di te con un colpo del piede.
Strappi l’involucro e dispieghi il quotidiano.
In prima pagina, un titolo nel più grande carattere che la testata possa permettersi: LE RAPE SONO BLU.
Sorridi, sarcastico.
Meglio prendere il caffè, prima che si freddi.
Dopotutto, perché farsi il cattivo sangue se poi non è utile a nessuno?
Anche se ora prendessi la porta, indignato, e protestassi contro la marea di baggianate che spacciano per notizie, nessuno mi sentirebbe.
Perché? Perché i giornali sono loro.
Loro decidono cosa scrivere e cosa no, e di certo non scriveranno che un povero pazzo ha osato dire che le rape sono tutt’altro che blu … Sarebbe controproducente, come minimo.
Io sono troppo piccolo.
È come voler urlare qualcosa contro una massa di persone che urlano l’esatto contrario.
E gli altri, perlopiù, la pensano precisamente come me e, come me, non hanno il coraggio di parlare né ne vedono il motivo
A nessuno importa quanto le rape siano rosse, bordeaux o vermiglie, cremisi, ciliegia o sangue, e non capiscono che il problema di fondo non è l’episodio stesso, la questione in sé, ma la filosofia delle cose … e non fanno nulla per cambiarle.
Meglio svegliare Mary, prima che si faccia troppo tardi.

Giulia Beltramino (4B)

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