Come può un uomo …

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Dedicato a Brichta Konrad

Sembra che tutto sia già stato detto, che tutto sia già stato scritto. Nel cercare di esprimere quali emozioni hanno suscitato i campi di concentramento sembra di voler far un elenco di luoghi comuni  che tuttavia luoghi comuni non sono. Allora pare quasi superfluo scrivere che è terribile, che l’uomo non può negare che sia davvero avvenuto, che ti si gela il sangue e tante altre affermazioni. Fermo restando che c’è davvero quel senso di incredulità, quel domandarsi, come dice Guccini, “come può un uomo uccidere un suo fratello

eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento “ e le domande che paiono così scontate perché sorgono quasi spontanee ogni volta che si nomina anche solo l’argomento Shoah affollano davvero la mente.

Il silenzio cala sul serio di fronte alle montagne di scarpe, valigie o capelli soprattutto se si pensa che ad ognuno di quei frammenti corrisponde una persona. Ci si spaventa quasi a realizzare con orrore che Auschwitz sembra un museo, un insieme di case in cui pare impossibile siano state sterminate così tante persone. Allora sorge il dubbio: ce l’hanno fatta davvero? Hanno reso sul serio tutto ciò quasi inconcepibile? Fatto sparire nell’oblio le migliaia e migliaia di persone crudelmente uccise? No. Mai. Mai, finché qualcuno andrà in quei luoghi, in una sorta di accorato e silenzioso pellegrinaggio della morte, si potrà pensare che hanno vinto. Un volto, un nome rimarranno per sempre scolpiti nella nostra memoria, ognuno con il suo piccolo frammento contribuirà a rendere più vicino a sé quello che è avvenuto. Fino a quando qualcuno saprà che, per esempio, sono esistiti Brichta Konrad, Tafil Ryschard-Longinius, Jelinkova Marie jelinkova marie jelinkova marie,Franciszek Styra

 Franciszek Styra, Lowi Aron o Borovec Rudolf la memoria non andrà persa. Nessuno si potrà ricordare i nomi di tutte le vittime, ma uno per uno si potrà ricostruire una memoria collettiva che dovrà durare nel corso del tempo, anche quando i testimoni diretti non ci saranno più. Perché con il passare delle stagioni saranno sempre meno riconoscibili i luoghi della deportazione, basti vedere il piccolo resto di muro del ghetto di Cracovia piuttosto che l’autostrada o le case che sorgono proprio vicino all’entrata di Auschwitz, tuttavia forse anche questa è una sorta di memoria. Può apparire una forzatura o una mancanza di rispetto, quasi come lo scattare una fotografia ad un forno crematorio piuttosto che ad un paio di scarpe perché certe immagini rimangono impresse nella mente comunque a prescindere da un ricordo materiale, però simbolicamente può rappresentare la vittoria della vita sulla morte.

Lo spettacolo che si presenta agli occhi di chiunque sia andato a visitare un campo di stermino non è che la cornice di ciò che è successo, mai potremmo comprendere del tutto e, infatti, lo scopo del Treno della Memoria non è l’immedesimazione con le vittime piuttosto che, un po’ più per assurdo, coi carnefici; lo scopo è ricordare, spingere chiunque a fare qualcosa in prima persona, per quanto nel suo piccolo, per far si che non accada mai più. A tal fine allora diventa giustificabile la trasformazione dell’ ”industria della morte” di una volta in quella “della memoria” di oggi e quindi, anche se si vorrebbe essere da soli per avere i propri spazi e il proprio tempo per assimilare meglio quello che si ha di fronte agli occhi,al tempo stesso la consapevolezza di avere un qualcuno, anche di estraneo, vicino rende la cosa più sopportabile e il sovraffollamento di un luogo prima deserto tollerabile. Tuttavia perché sembra che il mondo si ricordi dei milioni di vittime solo in occasione del 27 gennaio, giornata della memoria, costringendoli all’oblio per il resto dell’anno? Un dubbio rimane: qual è il confine tra il giusto ricordo ed un’eccessiva ostentazione di una memoria collettiva?

 

Carlotta Monge (4C)

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