87 milioni di utenti spiati, elezioni e referendum di importanza globale pilotate, milioni e milioni di dati personali venduti. Ma chi sono i responsabili? Zuckerberg? Cambridge Analytica?
Partiamo dai fatti. Un’applicazione (thisisyourdigitallife) realizzata da Aleksandr Kogan, interagisce con Facebook al fine di sottoporre dei brevi questionari agli utenti del famoso social network. Stando agli accordi iniziali, accettati dai legali di Facebook, i dati ricavati dai profili degli utenti, inviati ai server di Kogan al momento del log-in sulla sua app, non possono essere venduti a terze parti o diffusi. Queste condizioni, però, pochi mesi dopo vengono sottoposte ad alcune modifiche, secondo le quali i dati possono essere utilizzati a fini commerciali. Informazioni personali riguardanti 87 milioni di utenti vengono quindi vendute a Cambridge Analytica, una società che costruisce profili specifici di persone, utilizzando le “tracce” lasciate in rete.
Il metodo O.C.E.A.N., conosciuto anche come Five Factors Model, non è di certo una novità: principalmente impiegato in psicologia e in marketing, permette di creare un profilo della personalità basandosi su specifici fattori. Su questo si fonda il lavoro di Cambridge Analytica, che, grazie ai dati ottenuti da Facebook, ha potuto mandare pubblicità personalizzate e influenzare ad hoc le scelte individuali di milioni di persone tramite i social.
E per cosa tutto questo? Creare disinformazione.
Le decisioni di ognuno si basano sulle informazioni che riceve, e informazioni non corrispondenti alla realtà portano a decisioni sbagliate.
Nell’era del World Wide Web è molto facile creare, diffondere fake news e raggiungere velocemente un gran numero di lettori. Per rendere appetibile un’offerta, politica o commerciale, la chiave è nel messaggio: deve arrivare alla persona giusta, al momento giusto e tramite il medium di comunicazione giusto. Il metodo utilizzato da Cambridge Analytica, nello specifico, è risultato molto efficace nell’influenzare i soggetti “target”, perché ha costruito “disinformazione su misura” per fare leva su specifici tratti della loro personalità.
Questo caso, però, è solo la punta dell’iceberg di una situazione molto più generalizzata di “controllo del pensiero”, a fronte della quale dobbiamo tutti porci una semplice domanda: i miliardi di dati personali reperibili con un semplice clic sul web, da chi sono stati messi in circolazione?
La risposta diventa imbarazzante: noi siamo i primi responsabili.
Di fronte all’evidenza che la Privacy su Internet è quasi inesistente, diventa allora fondamentale una profonda riflessione personale sull’effettiva necessità di “seminare” tutta questa vita in rete. D’altronde, già Cicerone duemila anni fa, senza usare Twitter, scriveva ut sementem feceris, ita metes.
Gabriele Pujatti