Keith è un aborigeno, figlio di un uomo neozelandese e una donna aborigena australiana. Non sa di preciso quando è nato, non è stato registrato, il governo riesce solo a risalire all’anno e lui festeggia il compleanno il primo gennaio, con tanti altri come lui. È madrelingua inglese e solo dopo purtroppo, come dice, viene la lingua della sua tribù.
Non immaginatevi un uomo mezzo nudo con milioni di collane, una lancia in una mano e un boomerang nell’altra. Keith è un aborigeno, ma nella multietnicità dell’Australia l’unica cosa che lo differenzia dagli altri sono il suo passato e quello della sua gente. Ha addosso gli stessi vestiti che si vedono nelle vetrine, non è nascosto in mezzo al deserto con la sua tribù, gira in città e incontra i turisti per raccontare le sue esperienze e confrontare i punti di vista.
Si scusa, ridendo, per non essere l’icona che ci si aspetta, ma, come dice, al giorno d’oggi nessun aborigeno può seguire completamente la tradizione, ormai sono una minoranza. È disposto a rispondere a tutte le domande che gli si pongono, finché la sua cultura glielo permette.
Riguardo la colonizzazione, se gli si chiede a parer suo cosa abbia portato, risponde per esempi. Ha portato la medicina. Prima nessun aborigeno si ammalava, non c’è nessuna parola nella loro lingua che indichi una malattia o una medicina. Nessuno era mai ammalato perché non c’era l’idea di malattia. Nessuno era mai stressato, hanno sempre vissuto nell’unica dimensione che riconoscono: il presente, seguendo i ritmi del sole, senza fretta, senza “tempo”, senza stress.
Ha portato nuove parole, nuove idee, nuovi concetti, diversi modi di pensare.
Gli aborigeni, per esempio, hanno solo quattro numeri: uno, due, tre, molti. Tutto ha un nome, anche gli anni. Non c’erano soldi… che bisogno c’è di infiniti numeri? Tutto è definito con un nome che richiama quello che si vede; se gli asiatici sono chiamati occhi-a-mandorla non è per razzismo, è perché quello è ciò che si vede. Allo stesso modo è per la scrittura, l’arte e la musica. Ogni cosa racconta una storia, ogni simbolo riproduce una caratteristica visibile. “Provate a tirare una pietra in un laghetto”, invita la gente, “cosa succede?”: l’acqua è rappresentata da cerchi concentrici, un canguro da due linee parallele, le impronte delle zampe.
Lo stesso meccanismo è usato per leggere la terra e il cielo, genitori dell’umanità. Ogni cosa è un’informazione, una mappa che la terra, da brava madre, fornisce ai suoi figli. Basta solo imparare a leggere.
La religione è un argomento scottante. Secondo Keith ogni uomo sulla terra crede fondamentalmente nelle stesse cose, ognuno cerca un creatore ma (testuale) “una vergine che partorisce un bambino? Come on! Un uomo che cammina sull’acqua? Come on!”. Loro credono nel serpente, che altro non è che un fiume visto dall’alto, che altro non è che acqua. Ecco, loro credono nell’acqua, nell’acqua che dà vita.
E per quanto si possa continuare all’infinito ad esplorare ogni aspetto di una cultura così ricca, e così “logica”, per ora è ancora nascosta, soffocata dalla legge dei “nuovi australiani” , dalla loro cultura e società. E ogni magia si spezza quando Keith con forza dice che l’Australia non è pronta per una totale integrazione; in parlamento, sostiene, non ci saranno rappresentanti aborigeni per ancora lungo tempo. Con rassegnazione e forse realismo, dice che sono una minoranza e lo saranno sempre. Se anche la loro cultura durerà ancora molto a lungo, le loro tradizioni sono già influenzate dalla tecnologia (troppa) e dall’opinione pubblica. Sono un popolo che deve sottostare a due leggi: quella del governo e la propria, spesso anche in contraddizione, sono vittime della società. Dopotutto, come dice Keith, quanti di voi preferirebbero andare a caccia di un canguro con un pezzo di legno in mano quando a duecento metri c’è un supermercato?
Maria Perotto (4C)