Si ha la netta sensazione che la conferenza di Angelo Tartaglia dell’8 Novembre 2013 non si riduca solo a quello che le orecchie ascoltano, a quello che gli occhi vedono sul power point, a quello che le viscere sentono in fondo alla pancia davanti a curve cartesiane di iperboli che salgono esponenzialmente verso un apogeo di crescita e progresso dorati e che poi calano a picco verso la catastrofe. Argomento: ambiente. Per chi non conosce Tartaglia – e forse anche per chi ci ha già avuto a che fare – ci si aspetta il solito freegan peace and love con papillon (nda. Luca Mercalli) che vorrebbe ricoprire case, langhe, mari e deserto del Gobi con pannelli solari. Dimenticatevi la consueta cantilena ” chiudete i rubinetti quando vi lavate i denti e non lasciate la TV in stand -by” che entra da un orecchio ed esce dall’altro senza lasciare alcuna traccia se non quella di una vaga, indefinibile irritazione generale. L’approccio, fortunatamente, è totalmente diverso : si parla inglese, sullo schermo appaiono formule così semplici ed indicative da essere eleganti e Tartaglia stesso quando spiega non è un ingegnere ed un fisico del politecnico per caso. Nessuna lista, nessun consiglio pratico, nessuna ramanzina. Si comincia benissimo: si ragiona assieme, armonicamente. Tartaglia comincia con numeri, dati, un brainstorming generale su bisogni e risorse – ma il discorso diventa ben presto in 3D. Non solo ascisse ed ordinate di grafici che parlano chiaro; c’è anche il “terzo asse” di una riflessione dalla profondità disarmante , un filo rosso sotterraneo trasversale a tutto il discorso che punge, pizzica. “La nostra società è come un tossico in crisi di astinenza” afferma davanti alla redazione dopo che l’aula magna si è già svuotata, ed è forse il paragone più calzante di tutti – quasi mi dispiace che non l’abbia detto davanti all’uditorio completo. ” E sta malissimo. (…) Bisogna quindi inventarsi una terapia scalare, una strategia di uscita. Invece l’economia che noi abbiamo, i politici vari qua e là, sembrano tutti un collegio di medici che davanti ad un caso del genere danno al tossico la tutta la droga che vuole. Dato che questo sarà più dipendente, dopo, bisognerà cercargliene di più. E siccome non si trova materialmente, la crisi diventerà universale”. È qualcosa di una lucidità devastante: e noi ci siamo dentro. È un paragone che dipinge l’economia come fauci voraci della nostra umanità più avida meschina, e noi come le parti organiche incapaci di una riflessione critica sulla logica che sottende al sistema: quella di produrre. Crudele? No, vero. Tartaglia non la chiama neanche logica, neanche idea. La chiama ideologia del progresso infinito, del “bright future”, quella che poteva animare la borghesia capitalistica emergente dell’Ottocento e che fa leva sull’intelligenza di scopo. Cioè quel tipo di intelligenza biologicamente meno raffinata e più antica che l’uomo condivide con gli scimpanzé e le cornacchie. Uomo, scimpanzé e cornacchie si spremono le meningi per trovare una soluzione hic et nunc, una soluzione ai problemi più impellenti, quelli di adesso. Soluzione che, generalmente, per quella scimmia che si dice evoluta si configura come un aumento della richiesta di risorse, di materia prima, di energia. È possibile in questo senso impostare una proporzione – utilissimo l’aneddoto utilizzato da Tartaglia stesso tratto dal romanzo di Stevenson. La ragione sta a dottor Jekyll come l’intelligenza di scopo sta a Mr. Hide. La ragione (“difetto genetico”, dice il professore) è capace di guardare avanti per generazioni, per secoli: il dottor Jekyll sa benissimo qual è la cosa giusta da fare, sa benissimo da che parte sta il bene e da che parte il male. Ma è l’intelligenza di scopo – Mr.Hide – ad agire, a prendere la decisione definitiva. E di solito, davanti all’evidenza del drammatico cambio di rotta decisivo ed imminente a causa dei limiti intrinseci dell’habitat terrestre, questa oscilla tra due atteggiamenti. Quella del chissenefrega – quella classica, quella di tutti noi – e quella della cicala/governo che davanti alla formica/scienziato con le prove inequivocabili del collasso riconosce la tragedia dell’inverno, ma solo come remota e lontana, e continua a cantare.
Ma Tartaglia (lo ribadisce lui stesso più volte ) non è un economista: è un fisico. E come fisico sa benissimo che le leggi della fisica non sono solo formule barbose sulla pagina di un libro, checché ne dicano gli studenti e gli economisti stessi. Per esempio, la legge della conservazione dell’energia ci insegna che l’energia di un sistema non si crea né si distrugge: si trasforma, si manipola, si converte. Ma la quantità è fissa: fissa è anche la quantità di energia che il pianeta può fornire, e se non se ne può chiedere di più e perché, molto semplicemente, materialmente, non ce n’è. Tale energia si può poi “mettere in disordine” , ed ecco che entra in gioco il secondo principio della termodinamica: il petrolio può essere estratto da un giacimento in Arabia ed usato dalle automobili d’America. In questo modo si aumenta il grado di entropia del sistema-terra: l’energia non è più convogliata in definite “isole energetiche”, cioè in un numero specifico di giacimenti petroliferi, ma è “sparsa” in tutta l’America. Si può fare, certo. Ma al pianeta occorrerà tempo per il recupero, per “rimettere le cose a posto”.
Ora, ecco cosa pizzica, ecco cosa punge. Se nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, c’è qualcosa di implicito: se uno ha di più, significa che cento hanno di meno. Che la povertà sia una derivata obbligata del sistema nel quale viviamo? Che la povertà sia qualcosa di indirettamente ma collettivamente voluto e quindi tacitamente accettato per mandare avanti la baracca? Ecco cosa c’è stato di nuovo nella conferenza dell’8 Novembre di Angelo Tartaglia: rielaborare il concetto di ambiente in un orizzonte di più profondo ed ampio respiro, descriverlo in un piano cartesiano dove non ci sono solo le coordinate fatte di dati e di grafici ma anche l’asse su cui si muove la motivazione individuale ed universale a cambiare le cose. Va bene chiudere il rubinetto quando ci laviamo i denti, va bene non lasciare la TV in stand-by, sono tutte buone cose: ma perché? Perché farlo? Perché siamo schiavi di una ideologia di progresso e crescita infinite vecchia di duecento anni; perché la società odierna è per certi versi la proiezione su scala mondiale del Mr. Hide che abita ognuno di noi; perché se la scienza troverà nuove soluzioni ai problemi di adesso, essa ha già messo in chiaro che un limite c’è e va rispettato.
“Chi scalza il muro, quello gli cade addosso” diceva Leonardo da Vinci.
E tu, cicala, continua, continua pure a cantare.
Sara Schiara (5B)