Durante l’estremo apice afoso d’un pomeriggio estivo, cominciai ad intagliare una storia con la mia stilografica di pelle d’abete.
Il suo succo color pece iniziò pigramente a comporsi in parole, le parole in frasi e le frasi coagularono paragrafi, dissanguandosi in un susseguirsi di pagine.
La storia non era un granchè, ne ero consapevole, eppure provavo per istinto la sensazione che tra le sue righe portasse dentro qualcosa di bello. Qualcosa che poteva farla crescere, diventare grande e robusta, degna d’essere spogliata da milioni di occhi leggenti.
La storia procedeva bene ma era ormai troppo tempo che mi ci stavo sforzando sopra. Cominciai a sentire le sinapsi sudare, arruginirsi e infine cigolare. L’intera materia grigia d’un tratto scricchiolò, come un vecchio parquet che si lamenta sotto il peso d’un armadio gonfio e ingombrante. A quel punto, decisi fosse ora di lasciare che la mia concentrazione si stiracchiasse un poco.
Uscii dalla mia soffitta infilandomi uno scomodo giaccone di due taglie più largo, a cui purtroppo ero terribilmente affezionato. Scesi i gradini due a due poi, preso dalla smania d’uscire, raddoppiai i multipli e li feci quattro a quattro. Fu proprio all’ultimo quartetto che il mio piede si divincolò dalla giuntura della caviglia e sfuggì all’appoggio dello scalino. Caddi malamente, cozzando contro il ruvido selciato del reale, piastrellato di ottuse congetture e pregiudizi.
Quando rinvenni, sbatacchiato ma incolume, mi frugai nelle tasche per un controllo. Tastai invano, perchè lì mi accorsi di aver perduto l’ispirazione. Eppure ce l’avevo, mi dissi, son certo di essere uscito di casa e di avercela avuta appresso, son proprio sicuro, senza ombra di dubbio! Ispezionai il pavimento e risalii a ritroso tutti i sessantotto gradini che mi separavano dall’uscio del mio appartamento, scrutando in ogni minima fessura. Non trovai nulla. L’avevo irrimediabilmente perduta.
Non potendo fare altro, versando acri lacrime d’inchiostro, abbandonai la storia all’angolo d’un anonimo marciapiede. Mentre m’allontanavo la sentivo frignare e uggiolare, faceva pena e mi si strinsero le curve dell’intestino aggrovigliandosi in nodi indistricabili. Persino il più esperto dei marinai non avrebbe saputo come srotolarlo. Continuai comunque a correre sino a che la storia non fu in bilico dietro l’orizzonte alle mie spalle. Quando poi ci cadde dietro, rallentai e presi a camminare normalmente. Sapevo che ormai non c’era più nulla che potessi fare per lei, era inutile continuare ad illuderci entrambi.
Tentai di riprendere la mia vita di prima da dove l’avevo lasciata, ma la storia riuscì a ritrovarmi. Aveva buon fiuto per gli autori. La scacciai dapprima gentilmente, però, all’ennesima volta che la sentii aggrapparmisi al braccio per farsi sfogliare, reagii brutalmente.
Eppure, neanche le maniere barbare riuscirono a demolirne lo spirito. Non poteva sopportare l’idea di rimanere incompiuta. Fece allora un balzo e in un impeto di voracità letteraria mi inghiottì.
Fu così che, pur di proseguire, la storia cominciò a capitare a me, scegliendomi come protagonista obbligato. Fui forzato a percorrerne le vicende, vagabondando alla cieca nei suoi cartacei intestini.
Intrappolato all’interno, come in una gabbia di eventi, non potei fare altro che viverla, aspettando che finisse.
Guido Bertorelli