Dal greco …

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EirhnóV

Si può dire che la sua storia sia cominciata quando furono trascritti i miti che narravano le gesta di Zeus, re degli dei che dimorano nelle bianche case sull’Olimpo, di Era gelosa, sua sorella e consorte, di Ares temibile e appassionato del gioco della guerra e di tutti i divini ed eroici personaggi della mitologia della Grecia antica. In uno di questi miti si dice  che Zeus abbia avuto dalla titanessa Temi, signora della legge, ben sei figlie; ella infatti partorì per due volte tre gemelle, tutte figlie del grande dio. Esse erano le Moire filatrici di destini Cloto, Lachesi e Atropo e le Ore olimpiche portinaie Eunomia, Diche e Irene. Il nome dell’ultima delle Ore, Irene, deriva dalla parola greca “irenos”, che significa “pace”. Non è però dell’Ora la storia che è cominciata con la trascrizione dei miti, ma di una bambina moderna che porta quel nome, sintesi di un sogno di convivenza e accettazione fra tutti gli uomini del mondo. Questa bambina moderna è nata con un segno, invisibile quanto fondamentale, che porterà con sé qualunque sarà la strada che sceglierà di percorrere.

 

Oggi mia sorella mi ha raccontato una cosa successa quando io ero molto piccola, avevo appena due anni e mezzo. Non è che me l’abbia detto a sproposito, non è sua abitudine. Semplicemente a quattordici anni da quella prima volta ho compiuto di nuovo quel gesto. Ho premuto le mani sulla corteccia di un albero quasi come se avessi voluto abbracciarlo per conoscerlo ed entrare nella profondità del suo complicato tronco, regno della linfa vitale che scorre nelle sue vene di vegetale maestoso.

Lei mi ha guardato reclinando leggermente la testa, come se stesse cercando di ricordare qualcosa che quel mio gesto le aveva richiamato alla mente, poi mi è venuta vicina e mi ha sussurrato che se una persona poteva mettere in comunicazione due mondi quella ero io, e mi ha raccontato questa storia.

Quando era anche lei piuttosto piccola – parliamo quasi di vent’anni fa – sua madrina le aveva detto che premere le mani su un albero era un ottimo modo per apprezzarne la bellezza, assaporarne un odore percepibile al tatto e sentire al suo interno il perpetuare della vita. La madrina era malata di tumore e poco dopo morì, ma a mia sorella era rimasto dentro il bene che quella donna appena trentenne le aveva voluto.

Dopo sei anni dalla morte di Doriana comparivo io che, a soli due anni, compivo un gesto uguale a quello che era stato tramandato a  mia sorella e non sapevo spiegare il perché di quell’istinto. Mia sorella mi ha confessato di aver pensato che io fossi la reincarnazione di quella persona che era scomparsa durante la sua infanzia lasciandole un vuoto doloroso nel cuore.

 

Da quando aveva cominciato a parlare, non passava quasi giorno in cui Irene non facesse riferimento al periodo in cui era nelle stelle, prima di entrare nella pancia di mamma, e sostenesse di essere stata in quel tempo vicina a Dio. Tutto ciò che la riguardava era caratterizzato da una spiritualità che rendeva inconsistenti i dubbi di chi le stava intorno su un suo legame con ciò che non è dato conoscere a tutti, ma solo a persone molto speciali, capaci di vedere nel cuore degli altri cose che vi dovevano ancora succedere, quasi conoscesse le future sofferenze e gioie di ognuno.

 

«Nel cuore della mia sorellona scorre un fiume nero, fatto di acqua sporca, e solo lei lo può pulire per evitare che bagni le cose belle.». Quando ancora mia sorella frequentava regolarmente suo padre, che non è il mio, e i pianti erano seguiti da ritorni di fiducia e felicità quantomeno apparente e lei stessa ancora non aveva capito l’entità del suo dolore, io pronunciai questa frase dopo averla osservata scossa dagli ennesimi singhiozzi, senza sapere che anni dopo avrebbe fatto un lungo percorso interiore proprio per ripulire quel fiume, perché fosse limpido e irrorasse dolcemente quanto di bello la vita le avrebbe offerto.

 

Non potevano esistere dubbi nemmeno sul rapporto particolare che Irene aveva con la religione e la religiosità: in una famiglia in cui alcuni si dichiaravano atei ed altri agnostici, lei dimostrava di credere nell’esistenza di Dio e chiedeva a coloro che la circondavano se erano a loro volta cristiani, causando a volte imbarazzo nella persona che si sentiva rivolgere una domanda di questo tipo da una bambina. C’era chi le rispondeva sinceramente, chi rifletteva e poi rispondeva e chi guardava interrogativamente i membri della famiglia ed evitava di rispondere.

Tutti però rimanevano attoniti vedendola estraniarsi dalla realtà circostante levando gli occhi al cielo e guardando qualcosa che stava al di là di una cortina di nubi invisibili, simbolo della condizione umana di ignoranza per quanto riguarda il divino.

 

Ho un vago ricordo di aver chiesto alle mie sorelle e a i miei genitori se erano cristiani. Tutti risposero che credevano nel messaggio di Cristo. Con forza io dissi che  non solo credevo nel messaggio di Gesù, non mi bastava, ma anche nell’esistenza di Dio, e che era lui che guardavo quando contemplavo il cielo.

Irene non aveva mai frequentato la chiesa del quartiere, si limitava a visitare quelle che trovava nei luoghi in cui andava in vacanza e ad ammirarne le statue e gli affreschi, e a chiedere a quale santo fossero dedicate e perché. Non era perciò esperta di canti sacri e di liturgie. Nonostante ciò si emozionava quando sentiva corali religiosi che venivano cantati non solo nelle messe moderne cui non aveva mai assistito, ma anche e soprattutto nei culti del diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo, tempi dei quali non aveva mai sentito la musica sacra…

Se non in un’altra vita, come sua sorella e sua madre cominciavano silenziosamente a pensare.

 

L’altra settimana sono passata davanti ad un negozio di musica a Torino e mi sono fermata ad osservare le vetrine. Il mio sguardo è stato subito inspiegabilmente catturato da un CD sulla cui cover campeggiava il pulpito dorato e imponente di una chiesa barocca. Spinta da una mano invisibile e forte che mi indirizzava dolcemente verso l’ingresso, entrai nel negozio, che era più polveroso di quanto paresse dalla vetrina. Una donna snella di mezza età mi stava guardando da dietro il bancone, i capelli lunghi e liscissimi erano poco più che dorati e incorniciavano un viso sorridente e quieto. Aveva in mano una copia del CD che avevo visto in vetrina, e me lo porse sussurrando.

«Ti ho aspettata per molto tempo. Ora va’ a casa e ascolta.»

Ha rifiutato il mio denaro e io sono uscita e mi sono incamminata verso la fermata del tram. Quando sono arrivata a casa ho messo su il CD nello stereo della sala e mi sono seduta sul divano in preda ad una strana sensazione, sentivo che qualcosa stava di nuovo per accadere. Dopo le prime note è comparsa mia sorella con un’espressione stupita sul viso. Ha messo in pausa lo stereo, ha preso in mano il CD, si è seduta accanto a me e ha detto ciò che era dentro di me.

«Sai, Irene, tu hai già fatto tutto ciò, hai già ascoltato questa musica e hai già avuto quest’impressione di ritorno di un periodo passato. Quando avevi cinque anni io e mamma, incuriosite dal fatto che conoscevi una versione dell’Alleluia che era in realtà un Salmo della Bibbia, abbiamo chiesto a Elisabetta alcuni CD di musica sacra e senza dirti nulla te li abbiamo fatti sentire. Hai smesso di giocare, hai ascoltato a lungo e hai commentato che tu quella musica l’avevi già sentita vicino a Dio e che era come quella che cantavano gli Africani – alludevi agli spirituals.»

Non sono rimasta molto colpita da questo racconto perché nello stesso istante in cui mia sorella è entrata nella stanza ho avuto la netta percezione di aver già sentito quelle note provenire da un luogo più in basso rispetto a quello in cui mi trovavo io, giungevano ovattate come un dono di quel mondo di sotto.

 

Mi ha scritto di averlo sognato ancora. Sentivo che lei e James stavano vivendo qualcosa di speciale. Ora ne sono certa. Nel sogno ancora una volta era sdraiata nel suo letto qui a casa che pensava al nome da dare a suo figlio e una voce le ha detto che quello sarà il nome del bambino, e  un uomo del colore dell’ebano lo pronuncerà nel momento della nascita.

L’uomo è chino sul letto della ragazza. Il viso di lei è contratto per lo sforzo, ma non sembra provare dolore, è solo concentrata su qualcosa che né al suo compagno né all’ostetrico è dato conoscere. Il suo sguardo è come smarrito nelle vie della memoria. Un raggio di sole africano si posa sui suoi riccioli biondi scomposti. Improvvisamente percepisce che suo figlio non è più dentro di lei, si è appena lasciato scivolare tra le mani dell’ostetrico di colore che la assisteva.

«Oh, Jesus!», esclama l’uomo, sconvolto dal colore scurissimo della pelle del neonato. I suoi genitori infatti sono entrambi bianchi.

«Oh,yes,his name is Jesus», dice Irene sorridente, lasciando che lacrime di gioia scorrano sul suo viso rigandole le guance. 

 

                                                                                                

Chiara Murgia (1C)

 

 

Dedicato a mia sorella Irene, bambina incredibilmente speciale.

 

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