“Avere un sogno è importante in virtù del cammino, non del traguardo”. Samantha Cristoforetti ha realizzato il suo sogno, salendo sulla rampa di lancio quel 10 novembre 2014. Destinazione finale: spazio. Una grande passione, una lunga formazione e soprattutto tanta tanta fortuna: questo è la ricetta segreta per andare nel cosmo, svelata dalla prima astronauta italiana in una intervista tenutasi al Salone del Libro di Torino lo scorso maggio per presentare il suo nuovo libro “Diario di un’apprendista astronauta”. Un libro che parla di sogni e stelle, di umanità e scienza, di limiti e infinito. Un libro piacevole e leggero, leggero come l’assenza di gravità, come il sorriso di Samantha, come la gioia di chi vive sapendo di aver realizzato la propria passione.
Ti consideri ancora un’apprendista astronauta?
No, ovviamente no. Mi considero un’astronauta veterana dopo il mio primo viaggio nello spazio. Il mio libro racconta della mia formazione come cosmonauta, dalla selezione fino al ritorno sulla Terra, evidenziando le difficoltà, le soddisfazioni e i colpi di fortuna che mi hanno permesso di arrivare dove sono adesso.
Il libro è diviso in tre parti. La prima parte racconta della selezione, durata un anno, e della tua ansia riguardo al “mi avranno presa?”. La seconda parte, invece, parla del tuo intenso allenamento per diventare astronauta. Infine l’ultima sezione riguarda il lancio con la Soyuz, la tua missione nell’International Space Station e il tuo ritorno sulla Terra. Quello che emerge in generale è che la tua non è stata una passione ossessiva. Quando hai iniziato a voler fare l’astronauta?
Ho iniziato a raccontare alle persone che mi stavano intorno di voler andare nello spazio quando ero molto piccola, andavo ancora alla scuola elementare. La mia passione è stata fomentata dai primi lanci che si vedevano in televisione, avvenuti intorno agli anni 80 (io in quegli anni ero una bambina), ma anche dai libri di fantascienza e dal cielo. Infatti vengo da un paesino di montagna dove la volta celeste e le stelle si vedono in modo fantastico, perchè lì non c’è inquinamento. Inoltre vivendo in montagna ero sempre spinta all’avventura, tra le passeggiate nei boschi o i bagni nei laghi.
Per quanto si possa essere bravi, per quanto si possa essere talentuosi, per quanto ci si possa impegnare, la fortuna è stata per me la principale ragione per cui oggi sono qui. La selezione è avvenuta in un momento propizio della mia vita: mi trovavo nel posto giusto al momento giusto.
Tutta la parte sulla selezione del candidato perfetto non è una cosa veloce: ci vuole quasi un anno e nella prima parte del mio libro lo spiego in modo molto dettagliato. Posso affermare che il momento spartiacque della mia vita è stato quando ho aperto la mail in cui mi confermavano di avermi selezionato per diventare astronauta.
Nel tuo libro infatti nomini molto la Fortuna. Tu sei stata selezionata tra 8500 possibili candidati, insieme ad altri 5 astronauti europei tra cui Luca Parmitano. Quanto conta la fortuna?
Come dice il proverbio: “la fortuna aiuta gli audaci”. Non devi arrabbiarti se passi tutto il tempo a studiare, ti impegni tantissimo e poi non ce la fai. Gli altri candidati non erano più stupidi o peggiori di me: la fortuna conta davvero molto. Tuttavia questo non vuole dire che non bisogna fare nulla. Se non hai i tasselli, se non c’è l’impegno, sicuramente non si riesce a diventare un astronauta. Quello che consiglio è di coltivare il sogno, ma di non esserci ossessionati. Comunque avere un sogno è una cosa bellissima, che ti spinge nella vita ad andare sempre avanti: bisogna sentirsi fortunati ad avercelo fin da bambini.
Qual era il tuo piano B?
Nello stesso anno in cui ho inviato la mia candidatura all’Agenzia Spaziale Europea, ero anche all’inizio del mio percorso militare. Mi sono ritrovata nello stesso periodo a fare due cose importantissime per la mia formazione: la selezione per astronauti e l’addestramento per diventare pilota militare di AMX. Quello sarebbe stato sicuramente il mio piano B.
Dopo essere stata selezionata, sono iniziati i 5 anni di duro lavoro per arrivare alla ISS. Uno dei momenti fondamentali del tuo cammino è stato quando sei andata a prendere le misure per la tuta extraveicolare, per quelle che noi chiamiamo “passeggiate nello spazio”. Come era la tua tuta?
Non esistono tute standard per astronauti. Ogni astronauta ha la propria tuta personalizzata: si parte da una base uguale per tutti e poi vengono aggiunti pezzi specifici ad personam. In realtà non esiste la misura per me, che sarebbe la small, ma vengono realizzate solo dalla medium alla extra large, quindi mi sono dovuta abituare a stare in una tuta più grande di quanto avrebbe dovuta essere. I guanti invece rimangono sempre gli stessi, ovvero i nuovi astronauti indossano i guanti già utilizzati da altri. Le mie mani però sono strane, non riuscivano a trovare la misura giusta per me, quindi mi hanno fatto anche i guanti personalizzati.
La prima forte emozione che hai provato nel tuo addestramento è il volo parabolico. Raccontaci.
Il volo parabolico consiste nello stare dentro un aereo senza sedili e rivestito di imbottitura. L’aereo in cielo forma delle parabole, come un sasso lanciato per terra. Siccome seguiamo la sua traiettoria, noi nell’aereo galleggiavamo proprio come se fossimo nell’ISS. Questi voli durano circa 22 secondi ed è una sensazione fantastica. La sensazione è quella di mancanza di sforzo, di leggerezza: bellissimo.
Nel libro parli anche della tua difficoltà nel mettere radici. Tuttavia racconti anche di aver trovato una città che avrà sempre un posto nel tuo cuore, ovvero il luogo dove hai svolto la maggior parte degli allenamenti, in Russia. Come si viveva lì?
L’allenamento per andare nello spazio è particolare perché ci sono diversi posti dove svolgi le sessioni. Quello dove abbiamo passato la maggior parte del tempo è in Russia, vicino a Mosca, una ex base militare segreta. È pieno di statue di Gagarin, ma ci sono anche l’idrolaboratorio, la macchina centrifuga... E poi c’è questa vita di comunità. È pieno di astronauti dal tutto il mondo che condividono la tua stessa esperienza e sembra quasi una vita da college: si cena tutti insieme, ci si incontra alla sera, si organizzano feste, si va al bar...
Viene chiamata la “città delle stelle”. È un luogo pieno di rituali e tradizioni. La vita è scandita dalle missioni spaziali e quindi ogni volta che parte un astronauta si festeggia.
La tradizione dice che bisogna andare in bagno prima di salire sulla rampa di lancio, una sorta di scaramanzia.
Sì, questo è il caso in cui la scaramanzia si mischia all’utilità pratica. Andare in bagno prima di partire è davvero qualcosa di utile. Fare la pipì nello spazio è davvero difficile e per questo motivo gli astronauti portano tutti il pannolino.
30 settembre 2011. Houston. Simulazione della passeggiata spaziale. Che cosa si prova?
Le passeggiate spaziali non sono come nei film, dove fluttui dove ti pare allontanandoti dalla Stazione. No: sei stabilmente legato con diversi fili alla struttura. Ci sono almeno due cavi di sicurezza in acciaio. Nella improbabile convenienza in cui tu, nonostante tutto questo, ti staccassi, hai uno zaino di azoto compresso sulle spalle. Tu spari l’azoto da questi mini propulsori e poi ti indirizzi di nuovo verso la struttura.
L’unico modo per provarla sulla Terra è attraverso la realtà virtuale, che all’epoca del mio allenamento era ancora una cosa “esotica”.
Qual è stata la tua prima emozione quando hai saputo dell’assegnazione della tua spedizione?
La prima emozione è il senso di sollievo: quando lo vedi nero su bianco pensi “finalmente è vero”. È concreto. Da lì cambia tutto. Per le persone intorno a te è tutto rimasto uguale, ma tu ti senti diverso: sai che sei diventato un astronauta. Hai intorno una squadra di professionisti che lavorano per te e ti porteranno fin sopra il cielo (e ti faranno anche i guanti personalizzai se sei come me).
La formazione psicologica viene da sé oppure seguite un percorso con degli psicologi?
Non esiste un vero e proprio addestramento psicologico. Il grosso lo si fa nella selezione, cercano di trovare persone che vivano queste esperienze con serenità. Quello che si fa sono corsi per vivere in comunità, leadership, followship, etc. Tra qualche mese simuleremo una missione spaziale per 10 giorni in un sottomarino, negli USA. Questo esperimento si chiama Nemo e sarò insieme ad altre 5 persone, per vedere come lavoriamo in gruppo.
Parliamo anche di un piccolo momento di delusione, quando hai scoperto che non avevi più la tua tuta EVA.
La passeggiata spaziale è stata una delle parti principali del mio addestramento. Qualche settimana prima della mia partenza è esploso un Cargo che portava alcune parti personali della mia tuta, come la tuta di raffreddamento. Tutto il lavoro è diventato polvere nel giro di qualche istante. Pochi giorni prima della partenza mi è arrivata la mail da Houston in cui c’era scritto che la parte restante della mia tuta non sarebbe stata spedita con il resto del carico e li ho capito che non avrei fatto nessuna passeggiata spaziale. Ci sono rimasta molto male.
Quando arrivi nell’International Space Station l’emozione è fortissima, non descrivibile a parole. Terry, il capitano, quando pensò che fosse arrivato il momento giusto, ti portò alla famosa “cupola” da dove si vede la Terra. Che cosa hai provato?
Ho visto per la prima volta attraverso la cupola nel momento esatto mentre stava sorgendo il Sole. All’inizio vedi la Terra buia, con tutte le stelle intorno. Poi appare questa luce arancione che inonda completamente la Stazione. È bellissimo. Il Sole continua a salire e vedi questo scorrere della luce sulla Terra, la linea di confine che spinge via la notte e lascia spazio al giorno. Indescrivibile.
Qual è stata la sensazione di vedere lo stivale dallo spazio?
L’effetto di abbracciare con un solo sguardo tutto il tuo Paese è molto particolare: è come abbracciare in un solo istante tutti i tuoi cari.
Come fate nella Stazione Spaziale per il cibo e per l’acqua?
Il cibo dal mio punto di vista è buono e c’è tanta varietà. La maggior parte del cibo è procurato dalla NASA quindi bisogna abituarsi al gusto americano. Il cibo può essere liofilizzato, e quindi ci aggiungi dell’acqua per poi mangiarlo, oppure sono piatti in busta già pronti che tu scaldi in una specie di microonde.
Tutta l’acqua viene riciclata, dal sudore alla pipì. Il nostro motto è “trasformiamo il caffè di ieri nel caffè di domani”.
Come è stato poi confrontarsi con il mondo fuori, quando sei tornata sul pianeta? Ne è valsa la pena?
Sicuramente ne è valsa la pena, ma gestire i primi mesi dopo il ritorno è davvero difficile. Bisogna prepararsi all’incontro con il pubblico e con i giornalisti. Tu sei appena tornato e vorresti solo rilassarti mai sai che non puoi ed è tutto molto intenso. Quello che mi dispiace un po’ è di aver perso il mio anonimato, tutto qui.
Il libro finisce nel novembre 2015 in Namibia. Perché in Namibia?
La Namibia perché è stata la prima vacanza vera e propria dopo la mia missione. La Namibia è un paese che si riesce a riconoscere molto bene dalla Stazione Spaziale e mi ricordo che l’ultimo saluto al pianeta dallo spazio è stato proprio lo sguardo verso il deserto della Namibia, perciò quando mi hanno offerto una vacanza lì ho subito accettato. Per me questo viaggio ha concluso il ciclo di un’avventura.
Perché volevi andare nello spazio?
È una cosa che volevo fare fin da piccola ed è difficile spiegare in modo razionale una passione che ti prende completamente. Mi sento molto fortuna ad essere cresciuta con questo sogno perché rispecchia i miei interessi e i miei obbiettivi. L’astronauta è il mio lavoro ideale che mette insieme tutte le mie passioni: scienza, tecnologia, tecnica, informazione, tutto.
Quale sarà la tua prossima destinazione?
Prima di tutto spero di tornare nell’ISS. Adesso stanno organizzando delle missioni per ritornare sulla Luna, anche se per ora sono solo spedizioni americane. Poi chiaro, il mio sogno è Marte, ma non credo toccherà agli astronauti della mia generazione. Quello di cui sono sicura è che non vedo l’ora di poter fluttuare di nuovo tra le stelle.
Elisa Buglione-Ceresa