Dopo oltre 100 spettacoli eseguiti in tutto il mondo e quasi 1.300.000 biglietti venduti, gli U2 sono finalmente pronti a tornare in patria per le tappe finali del loro tour. I concerti, due a Dublino e uno a Belfast, si terranno il 28, 29 e 30 gennaio 2019. La scelta delle date non è casuale, ha spiegato Bono: la band suonerà nella seconda città il 30 gennaio, anniversario della famosa Bloody Sunday. Non solo, la canzone d’apertura è un omaggio al terribile evento del 1972, che il cantante irlandese ricorda nel titolo: Sunday Bloody Sunday. Il frontman degli U2 ci ha concesso un incontro in vista dell’evento straordinario prima della sua partenza per l’Irlanda. Tuttavia, ha specificato prima di iniziare, che “non si tratta dell’intervista a una star mondiale, ma ad un testimone della guerra nordirlandese”.
Siamo qui oggi per chiederti di parlarci di una canzone che si è assicurata il posto nella classifica dei 500 migliori brani musicali secondo Rolling Stone. Ovviamente non è un brano qualunque, e il suo grande successo dipende in parte dalla verità raccontata nel testo. Prima di parlare di Sunday Bloody Sunday, però, vorremmo che ci raccontassi un po’ di storia, che sicuramente conosci meglio di noi, perché tu l’hai vissuta, non è così? Che cosa succedeva nel tuo paese negli anni ‘60 e ‘70?
La vita in Irlanda era difficile, quando sono nato io. Il giorno in cui mia madre mi mise al mondo, 10 maggio 1960, l’Irlanda del Nord era immersa in un clima violento. Gli irlandesi erano divisi. Ricordo i due tipi di persone che popolavano le città: venivano chiamati unionists e nationalists. Entrambi erano gruppi numerosi, ma il primo era più grande dell’altro. I due terzi della popolazione, gli unionists, discendevano dagli inglesi e sostenevano che l’Irlanda del Nord fosse una provincia della Gran Bretagna. I secondi erano figli di figli di irlandesi, e volevano l’unità nazionale. Nel 1970, quando avevo dieci anni, l’Irish Republican Army iniziò a stuzzicare l’esercito inglese con azioni di guerriglia e questo atteggiamento diede probabilmente il via al vero e proprio conflitto. La guerra non era direttamente sulle mie strade perché io abitavo nel sud, tuttavia ogni irlandese ha il diritto di considerarla come propria. Ogni irlandese l’ha vissuta. Lo dico nel testo della canzone: “And it’s true we are immune when fact is fiction and TV reality”. Il sud non era il campo di battaglia, ma le immagini che ci mostravano ne davano una descrizione perfetta.
Nel 1972 è successo qualcosa di atroce, però: l’evento che ha ispirato la canzone. Raccontaci di che si tratta.
La chiamiamo Bloody Sunday, anzi, il termine corretto sarebbe “Domhnach na Fola”, che in gaelico significa “Domenica di sangue”. Sono morti 14 civili. So che, forse, 14 non è un numero che fa impressione, ma per gli irlandesi è stato un brutto colpo. Avrebbe potuto esserci chiunque di noi, davanti alle pallottole e alle auto, quel giorno. Mi spiego meglio: 30 gennaio 1972, Derry, Irlanda del Nord. Un gruppo di manifestanti disarmati si trovava in strada per difendere i propri diritti civili. Di fronte a loro fece capolino il 1º Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell’esercito britannico che si sentì in dovere di intervenire. Così, i soldati decisero di sparare contro quelle persone. Ne colpirono 26. Come ho detto, ne morirono 14, di cui sei minorenni.
È terribile.
Sì, lo è. I testimoni non mancarono. Molti giornalisti assistettero alla scena e raccontarono la verità, e volete sapere qual è la parte peggiore? I militari agirono per uccidere, non per spaventare. Fecero fuoco ma decisero anche di guidare contro la folla i loro veicoli militari, colpendo due persone. I travolti dalle auto sopravvissero, insieme ad altri 12 feriti. Altri furono meno fortunati. Cinque delle vittime furono colpite alle spalle. Un ex paracadutista inglese confessò, 31 anni dopo gli eventi, di aver sparato alla nuca a Bernard McGuigan, una delle vittime. Quando McGuigan venne colpito stava offrendo aiuto ad un’altra persona. In mano aveva un fazzoletto bianco, che sventolava di fronte al soldato. Conoscete il significato del fazzoletto bianco?
Intenzioni pacifiche.
Esatto. Eppure fu ucciso lo stesso. Non è guerra se solo una delle due parti combatte. No, ha un altro nome, si chiama massacro.
È quindi questa la ragione che ti ha spinto a scrivere un brano sulla Bloody Sunday? Com’è nata l’idea?
Ho scritto la canzone dieci anni dopo la “Domhnach na Fola”, ma il mio ricordo era ancora vivido. Non volevo realizzare una semplice “rebel song” tradizionale irlandese, ma esprimere un sentimento. Sunday Bloody Sunday è, più che altro, una reazione incredula al clima di violenza. È la mia reazione di ragazzo irlandese cresciuto da una famiglia di religione mista. Mia madre era protestante, mio padre cattolico e allora io mi sono chiesto “se loro sono riusciti a vivere insieme, com’è possibile che fratelli uniti nel nome di Cristo siano così violenti l’uno contro l’altro?”.
La canzone fu eseguita per la prima volta a Belfast nel 1982 e prima di iniziare a cantare tu dicesti: «Si chiama Sunday Bloody Sunday, parla di noi, dell’Irlanda. Ma se non piacerà a voi, non la suoneremo mai più.». Agli irlandesi è piaciuta, immagino.
Direi di sì. Quando l’esibizione finì, il pubblico ci riempì di applausi. All’inizio, consideravo la canzone come una “protesta” contro le stragi e le lotte in Irlanda del Nord, ma col tempo il suo significato è cambiato. Non parla più solo dell’Irlanda, ora è sulla Siria, ora sulla Turchia. Ora su qualunque altro paese che stia attraversando un periodo di conflitti. Per il ritornello ho usato le parole “How long, how long we must sing this song?” che sono un riferimento al tempo della guerra, della morte. Si tratta di una domanda che dovremmo tutti porci: quanto ancora dovremo cantare questa canzone perché la gente smetta di usare la violenza? A lungo, temo. Forse non smetteremo mai di cantarla perché c’è sempre guerra, da qualche parte.
Isabella Scotti