Ogni persona nel corso della propria vita è stata senza dubbio vittima di commenti riguardanti il proprio abbigliamento. In particolar modo nel mondo delle scuole. Nell’ ACT (Australian National Territory) c’è, però, un istituto in cui gli alunni, e più in particolare le alunne, sono liberi di indossare ciò che più piace loro. Dove non ci sono “dress code”. Una scuola in cui questa libertà è addirittura inserita nel regolamento di istituto. Dove si specifica che nessuno deve essere giudicato, né da coetanei né da professori, per i propri vestiti. Che si parli di ragioni economico-sociali o del cosiddetto “buoncostume”. Ricomponetevi signori, questa dovrebbe essere la normalità al giorno d’oggi.
In quella scuola quei fortunati studenti non sono oppressi da regole vecchio stile che fanno gli altri istituti anacronistici e antidiluviani. Non sono soggetti ad un “dress code” arretrato e superato. Perché lì, ci si rende conto che l’abbigliamento non interferisce con quella che è l’educazione dei futuri cittadini. Spesso si sente dire “a scuola si va per imparare, non per fare una sfilata di moda”. Tralasciando il semplicismo e la superficialità di questa dichiarazione, sembra assurdo che nel ventunesimo secolo si possa ancora pensare che i vestiti rappresentino le capacità cognitive. Come se Einstein non fosse più Einstein con le mutande in vista. La verità è che i vestiti influenzano ciò che le persone pensano, a discapito di tutto il resto. Senza nominare il fatto che poi molti ritengono la scuola un posto formale, quando invece dovrebbe essere tutto l’opposto. Per imparare bisogna sentirsi a proprio agio, sia con l’ambiente circostante che con la persona che sta dall’altra parte della cattedra.
In quella scuola ci si rende conto che la moda, invece, è un potente mezzo di auto espressione. Si dice che l’adolescenza sia il periodo più vulnerabile della propria vita. Tutto viene messo in discussione per trovare se stessi. Per capire chi si vuole essere, quale tipo di persona. E diciamocelo, nessuno vuole essere un individuo che vieta ad un altro di esprimersi. La moda è espressione. E sembra che nessuno si renda conto che, drasticamente, un “dress code” è come una censura. Eppure quando si parla di libertà di stampa e di espressione siamo tutti d’accordo.
In quella scuola ci si rende conto che c’è una scelta e una presa di responsabilità dietro a quei pantaloncini corti. Bisognerebbe gioire vedendo dei giovani adulti prendere le proprie decisioni, crescere. Bisognerebbe incoraggiarli. Alla fine fa tutto parte di questo, no? Crescere. E prepararsi a quella che dovrebbe essere la “vita vera”. E quale altro modo se non affidare loro le responsabilità e aspettare che ne accettino le conseguenze? Questo è imparare. Questo è crescere. Impartire loro una serie di regole è un modello di disciplina superato da un pezzo. Tutti sanno che sporcarsi le mani e imparare dai propri errori, o successi, è molto più produttivo. E così anche per il codice di abbigliamento. Ognuno dovrebbe avere il buon senso di decidere cosa è più appropriato indossare nelle più svariate circostanze. Ma si sta parlando di senso comune, non di obblighi.
In quella scuola ci si rende conto che i problemi non vanno nascosti, sperando che si risolvano da soli. Ma che bisogna affrontarli. Il bullismo nelle scuole è un problema. Ancora peggio adesso il cyber-bullismo. Le persone vengono discriminate per tante ragioni, ma non diciamo che una fra questa non è l’abbigliamento. Ma la soluzione non è dimenticare le vittime suicide dietro ad un foglio di regole. La soluzione è condannare il bullismo abbracciando le diversità, non nascondendole. Se qualcuno in quella scuola si permette di dire qualcosa riguardante l’aspetto fisico con cui un altro individuo si presenta, la colpa non è di certo della vittima. Ma del bullo, che viene giustamente sanzionato. È chiaro che la scuola, dando le responsabilità sul vestiario, condanna ogni situazione di discriminazione e si aspetta un comportamento adulto. Non si permettono di dire “fate ciò che volete”. Ma sensibilizzano le persone.
Per di più i “dress code” riguardano solitamente il vestiario femminile. Facendo accrescere l’immagine dei maschi come individui incontinenti che sbavano di fronte ad un paio di gambe nude. Guidati più dagli ormoni che dal giudizio personale. Oggettivando le ragazze. Istituzioni come il codice di abbigliamento non fanno altro che insinuare nelle menti di quelli che saranno il nostro futuro convinzioni sessiste. Che mortificano la figura femminile. Che suggeriscono che le donne debbano vergognarsi del proprio corpo. Che danno il messaggio che sentendosi carine si venga immediatamente giudicate per questo. Troppo spesso con appellativi poco nobili. Viviamo in un mondo in cui il 30% delle donne è destinato a subire violenze domestiche (come ci chiarisce uno studio sulla violenza sulle donne realizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità in collaborazione con la London school of Hygiene and Tropical Medicine). Bisognerebbe insegnare a bambine e bambini che l’abbigliamento non è un movente. Mai. La gonna inguinale non giustifica lo stupro.
È evidente che continuando a sanzionare ragazze e ragazzi nelle scuole per il proprio abbigliamento, non si fa altro che dare il messaggio che è giusto sanzionarli. Che hanno fatto qualcosa di sbagliato. C’è quindi un errore alla base. Opprimere le libertà primarie chiaramente non può essere la soluzione. Proviamo ad alzare la voce e ad esporci per quelli che sono i nostri diritti. Non di ragazze, non di ragazzi, ma di studenti.
Ginevra Galliano (4B) – corrispondente dall’Australia