Cappotto tripla piuma, maglie di lana, di cotone leggero e pesante, tuta da sci, scarponi, scarponcini, calzamaglia, collant e jeans. Nella valigia? No, tutto addosso.
L’Italiano che parte per la Svezia è un esemplare più unico che raro. Parte attrezzato di tutto punto, nemmeno stesse andando otto settimane in Siberia. Non sa una parola di svedese. L’inglese nemmeno a parlarne. Porta sughi, pasta, cioccolata, biscotti. Sta partendo per il paese di nessuno. Ma è deciso, e parte! Nell’aeroporto italiano si sa abbastanza muovere, nonostante le due/tre valigie da 23 Kg l’una per otto giorni fra le renne. Ma appena atterra nell’aeroporto svedese è panico. Panico puro. Come la mosca gira a vuoto nell’aria, così l’Italiano vaga nell’aeroporto in cerca della sua valigia. Spera negli annunci, ma lo svedese suona come un ronzio continuo. L’inglese non suona proprio. Così si fa coraggio, e chiede informazioni in tono inglesizzante, convinto che le “w” e le “y” alla fine di ogni parola italiana siano sufficienti per parlare un ottimo inglese. E con un linguaggio del corpo spaventosamente evidente, si fa capire. Il concetto è: “Dov’è la mia valigia?” (al posto del punto interrogativo ci sono però numerose e colorate “espressioni idiomatiche” che si prestano alla situazione). Finalmente capisce, trova la valigia e prende il pullman per un paesino dal nome impronunciabile, dove una famiglia lo ospiterà per ben otto giorni. E nel frattempo pensa: “Ma chi me l’ha fatto fare?”. Già in lutto per pioggia e freddo, si abbatte totalmente sentendo l’inglese perfetto e chiaro degli Svedesi. Arrivato in famiglia fra sorrisi e frasi fatte, sale in camera sua, sistema le sue cose (quasi a dire: “Questo è il mio territorio.”) e torna dalla famiglia che lo aspetta per la cena. Sorride, senza sapere che le patate con crema dolce lo stanno aspettando calde nel piatto. La madre smagliante rassicura: “Se non ti piace non devi finirlo!”. È guerra dichiarata. Mentre l’Italiano mastica lentamente pensando che presto sarà tutto finito, la famiglia chiede: “È buono?”. L’Italiano con la bocca impastata di qualcosa di indefinibile e la voglia di morire nel cuore afferma che è tutto buonissimo, che in Italia si mangia ugualmente bene e fa i complimenti alla cuoca, che prontamente gli riempie di nuovo il piatto. Peccato non sappia dire “Sono sazio”.
Con questi pensieri tristi e la pura mancanza della madrepatria, l’Italiano si avvia a passare una serata con altri Svedesi. L’unica consolazione è ritrovare i cari compatrioti messi peggio di lui. Una serata passata fra lo schieramento italiano e lo schieramento svedese insomma.
Con voce mielosa gli Svedesi rompono le righe chiedendo: “Volete un po’ di “fika”?”. Gli occhi degli Italiani, che di tutto il discorso hanno capito “fika”, si fanno malupini. Sguardi maliziosi corrono fra i compagni di merende. In fondo in Svezia non è tanto male.
Ma anche questa volta il povero Italiano sarà deluso.
Altro che bionda con gli occhi azzurri, “fika” vuol dire caffè. Che poi, caffè non è.
E così, il povero Italiano torna a casa affranto, deluso. Ma la vera guerra comincia ora.
Sperava di dormire. Sperava. Invano.
Letto comodo, certo, ma non ci sono le tende. Quasi come se all’Ikea non le producessero! Fra risatine isteriche e totale rassegnazione l’Italiano in Svezia si addormenta.
Per modo di dire. Alle quattro di mattina è investito dalla luce. Gli uccellini non cantano. Urlano per farlo svegliare. Il gallo? Lui è il peggiore. Il suo allegro “chicchiricchì!” è più un “Alzati su, non avrai mica pensato di poter dormire?”. Gli sembra uno scherzo. “Uno contro mille. Così non è giusto.”, pensa il povero Italiano sballottato fra i nuovi ritmi del paese più impervio mai visto. “Manca solo la neve!” pensa. Ma il cielo accoglie le sue preghiere, sottomettendolo definitivamente alla Svezia.
Alessandra Milano (3D)